Pennisi: il mio amico vescovo alla prese con i mafiosi devoti
Sono contento d’aver conosciuto il vescovo di Piazza Armerina Michele Pennisi prima attraverso il mio blog e poi nella sua casa e nella sua Chiesa, ospite per conferenze e per una vacanza: sono così aiutato a cogliere – spero – la giusta valenza del lavoro che sta compiendo sul fronte della mafia. Considero la conversazione con lui, da cui nasce questo articolo, come un prolungamento di quanto ho appreso in materia dal cardinale Pappalardo e dal padre Sorge, da Cataldo Naro professore e vescovo, dalla riflessione che ebbi a condurre – per una relazione al Convegno delle Chiese di Sicilia che si tenne ad Acireale nel 2001 – sulle figure di “nuovi martiri” che hanno marcato il distacco dei cristiani dalle cosche.
All’inizio dell’avventura che sta vivendo il vescovo Pennisi c’è la mancata celebrazione nella chiesa madre di Gela del funerale di un capo della mafia. Seguono voci di protesta contro il vescovo che così ha stabilito, accettando un’indicazione del Comitato per l’ordine pubblico. In riferimento a quel fatto, come alla denuncia del pizzo da parte di imprenditori e all’arresto di latitanti, il vescovo pubblica sul settimanale della diocesi l’appello: “Mafiosi, convertitevi!” Tre mesi più tardi un presunto capo della mafia locale rivendica cittadinanza nella Chiesa scrivendo in una lettera aperta che “nella vita si può anche sbagliare” ma “Dio c’è per tutti, anche i mafiosi”. Il vescovo dice che “sì, c’è misericordia per tutti, ma dev’esserci anche penitenza, espiazione della pena, riparazione del danno arrecato”. E riafferma “l’incompatibilità dell’appartenenza alla mafia e alla Chiesa”.
Il funerale del boss con il rito dell’esaltazione
E’ forse la prima volta – a 25 anni dell’omelia di Sagunto del cardinale Pappalardo e a 15 anni dal grido di papa Wojtyla dalla Valle dei Templi di Agrigento – che la fatica di staccare la Chiesa dalla mafia si segnala in maniera tanto significativa nel vissuto ordinario di una comunità locale e il merito è di un vescovo che non ha grilli per la testa ma non ha neanche paura e applica alla situazione in cui vive le indicazioni venute da Roma e quelle elaborate dall’episcopato siciliano.
Il vescovo Pennisi, 61 anni, viene dal clero della vicina Caltagirone e ha fatto gli studi a Roma, alunno del Capranica. Il boss del funerale è il gelese Daniele Emmanuello, latitante da 11 anni, ucciso il 3 dicembre dalla polizia nelle campagne di Villarosa (Enna) durante un tentativo di fuga dal casolare dove si nascondeva. Il boss che rivendica cittadinanza nella Chiesa è Carmelo Barbieri, detto “u prufissuri”, anch’egli di Gela.
Eccoci al dicembre scorso quando il clan Emmanuello progetta un grandioso funerale nella chiesa madre del paese: vorrebbero l’ingresso solenne del feretro in città accolto sul sagrato da una quantità di corone di fiori, la bara alzata sulle braccia dei congiunti per il rito mafioso dell’esaltazione. Le autorità – seguendo un protocollo ormai consolidato – proibiscono quella celebrazione. La famiglia si appella al vescovo perché non “sottometta la Chiesa allo stato” ma il vescovo rispetta la decisione presa in sede civile e incarica un padre francescano di celebrare il funerale nella chiesa del cimitero.
La chiamata dei mafiosi alla “conversione” appare sul settimanale diocesano Settegiorni dagli Erei al Golfo il 17 dicembre. Vi si afferma che “l’atteggiamento pastorale verso i mafiosi ha come base la coscienza che la Chiesa è venuta gradualmente maturando circa l’incompatibilità di mafia e vita cristiana, accompagnata dall’esigenza di prevenire i fenomeni criminosi e aiutare i mafiosi a pentirsi, a riparare il male fatto e a diventare persone nuove”.
Il vescovo richiama – come fondamento del suo appello – la “splendida testimonianza” di don Puglisi, gli “esempi di tanti cristiani preti e laici impegnati a prevenire e contrastare il fenomeno mafioso”, i “pronunciamenti episcopali e dello stesso Giovanni Paolo II che ha contribuito alla condanna della mafia a partire dalle tradizionali e originali categorie cristiane”.
Un’originale catechesi su Zaccheo il “capocosca”
Qui è lo specifico della posizione del vescovo Pennisi nell’insieme di questa vicenda: egli sostiene che la Chiesa non deve limitarsi a condannare la mafia in quanto fenomeno criminoso e a contrastarla con la sua dottrina sociale; tutto ciò lo considera “doveroso” ma “insufficiente” e addita la necessità che i cristiani reagiscano alla pratica mafiosa “a partire dalla loro originale esperienza di fede e dalla loro appartenenza ecclesiale”.
Ecco la motivazione profonda della decisione sul funerale: una celebrazione solenne avrebbe impedito di segnalare, o avrebbe comunque oscurato la segnalazione di quell’incompatibilità. Dirà il vescovo in un’intervista al quotidiano “La Stampa” (12 febbraio): “Nello stile delle cosche il funerale esalta la vita del mafioso, mentre io applico il monito di Giovanni Paolo II alla conversione”.
Nell’appello del 17 dicembre il vescovo svolge un’originale catechesi evangelica con riferimento alla conversione di Zaccheo, che egli presenta come “un capomafia” che in risposta all’appello di Gesù “non difese la sua onestà e la sua onorabilità” ma si impegnò nella restituzione di quanto aveva “frodato”.
Non è un appello a ciel sereno: il vescovo di Piazza Armerina parla con autorità perché a fondamento delle sue parole c’è una vasta opera di prevenzione e recupero nei confronti della manovalanza mafiosa e dei detenuti con trascorsi di mafia condotta da quella comunità diocesana. L’appello stesso richiama i “gesti originali” già posti come “semi” nel terreno della civile convivenza e che “bisogna far germogliare con la collaborazione di tutti”: “Cooperative di lavoro, associazioni antiusura e antiracket, un uso morigerato del denaro, recupero e inserimento sociale dei carcerati e assistenza alle loro famiglie”. Di persona il vescovo vigila perché la costruzione di nuove chiese non venga appaltata a imprese colluse con la mafia.
“Dio ci liberi dal pizzo e da Cosa nostra”
Quasi in risposta all’appello viene diffuso in Gela, all’inizio di febbraio, un volantino anonimo con accuse e minacce al vescovo, qualificato come “il vero capo di Cosa nostra a Gela”, intendendo denunciare la sua oggettiva alleanza con la magistratura e le autorità che combattono la mafia. In reazione al volantino si ha una corale manifestazione di solidarietà verso Pennisi e il prefetto dispone una particolare “vigilanza” della sua abitazione e dei suoi spostamenti.
In un comunicato dell’11 febbraio il vescovo afferma: “Siamo sereni, la nostra azione contro l’illegalità è in sintonia con la linea della Chiesa italiana. Dio ci liberi dal pizzo e dalla mafia”. Intervistato il 17 febbraio da Andrea Sarubbi per la rubrica “A sua immagine” di Rai 1 parla così del proprio ruolo: “Non mi sento né un eroe né un vescovo antimafia, ma una persona normale che cerca di fare il suo dovere di pastore andando avanti al suo popolo al quale propone la santità nella vita ordinaria come vero antidoto alla mafia”.
“Dio c’è per tutti anche per i mafiosi”
Ma eccoci a un secondo tempo della viva riflessione del vescovo sull’impossibile conciliazione di mafia e Chiesa motivata da una nuova e più pungente contestazione della sua linea di marcato distacco. Stavolta la protesta è firmata ed è contenuta in una lettera aperta del professore (di ginnastica) Carmelo Barbieri, condannato in primo grado a 24 anni ma in libertà vigilata a motivo dei ritardi della giustizia (la sentenza di condanna è stata depositata il marzo scorso a quasi sette anni dal processo). Avviene che il sindaco di Gela Rosario Crocetta (dei Comunisti italiani), acceso denunciatore dei mafiosi, nonché un parroco della città – don Luigi Petralia – molto deciso nell’applicare la linea dettata dal vescovo, deplorino davanti alle telecamere di una tv locale la presenza del Barbieri alla processione del Venerdì Santo. Secondo il sindaco quella presenza avrebbe “macchiato i riti della Settimana Santa”, mentre il prete afferma che “non basta alla riconciliazione il fatto di essere presenti a messe e processioni: si sceglie la via della vera conversione quando si confessano i propri errori anche davanti ai tribunali”.
Il Barbieri – presunto capo della cosca locale affiliata ai Madonia – ricorda nella lettera che la sua “famiglia” (con lui in processione c’erano la moglie e l’ultimo dei figli) era stata “consacrata vent’anni fa dalla Chiesa” e che “nessuno potrà vietarci di continuare a vivere serenamente la nostra realtà spirituale, certi che nella vita si può anche sbagliare ma la Chiesa ci insegna che Dio è e c’è per i malati, i deboli, i perseguitati, i carcerati tutti, anche i mafiosi”. Definisce infine la Chiesa gelese “sorda e miope” e chiede “chiarimenti su una questione così importante e delicata”.
Il boss è fuori ma si sente dentro
Anche in risposta a questa lettera il vescovo Pennisi aggiorna la propria riflessione con una conferenza del 4 aprile ai Lions Club di Taormina che il Regno pubblicherà prossimamente nella sezione documenti: essa costituisce come una summa del cammino della Chiesa siciliana su questo crinale. Qui ne abbiamo ricostruito le circostanze della gestazione. Ed ecco due sue affermazioni che costituiscono come i fuochi dell’intera proposta, nella cui formulazione si avverte un richiamo implicito alla protesta della famiglia Emmanuello e a quella di Carmelo Barbieri: “Il mafioso, in forza della stessa appartenenza alla cosca dedita strutturalmente al crimine, si pone oggettivamente fuori della comunione ecclesiale”; ma “bisogna analizzare criticamente il fatto che, spesso, vari mafiosi si ritengono membri della Chiesa a pieno titolo e nient’affatto fuori della sua comunione”.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 10/2008