Loreto – Ordine Francescano Secolare – 16 settembre 2010
La piccola chiesa impara dalla grande chiesa a conoscere il Signore e come si stia a tavola con lui, il significato pieno e la misteriosa efficacia delle sue parole e dei suoi gesti. Senza la scuola della domenica, la famiglia non saprebbe stare cristianamente a tavola.
Ma anche la grande chiesa può imparare qualcosa dalla piccola chiesa che è la famiglia: la concretezza della convivialità, la possibilità di nominare il Signore nella lingua di tutti i giorni, la spontaneità del servizio dei grandi verso i piccoli.
Partiamo dal giovedì santo e dalla bellissima celebrazione che quel giorno si tiene nelle chiese. Celebrazione che si pone come memoriale pieno dell’ultima cena del Signore: pieno perché ricorda non solo il mistero del pane e del vino, e la sua consegna ai discepoli d’ogni secolo; ma anche il gesto della lavanda dei piedi, simbolo efficace del comandamento nuovo – quello dell’amore reciproco – che Gesù propone ai discepoli.
Ecco il Signore che prende un grembiule e un catino e lava i piedi ai dodici. E’ il primo che si mette al servizio degli ultimi. Il vescovo Tonino Bello era innamorato di quel gesto e ci ha lasciato una bella pagina sulla “Chiesa del grembiule”.
Ed ecco oggi il parroco che lava i piedi a dodici bambini della prima comunione, o il vescovo che li lava – in cattedrale – a dodici preti anziani.
Alle volte vengono scelti dodici ciechi (avveniva nell’ottocento), o dodici tossicodipendenti, o dodici senzacasa. La mia sposa, l’ultimo giovedì santo, mi ha detto: “Pensa che forza avrebbe questo gesto se i piedi li lavassimo ai curdi accampati qui fuori”.
E’ significativo che il gesto di Gesù abbia avuto riprese inventive – negli ultimi decenni – in chiave di servizio agli ultimi, di compassione per i “piccoli” del Vangelo.
Nella chiesa domestica non c’è bisogno del gesto simbolico della lavanda dei piedi, perché lì i piedi vengono lavati realmente – e ogni giorno – da chi governa a chi è governato: si tratti dei bimbi che non sanno ancora farlo, o degli anziani che non riescono più a farlo da soli. La chiesa nella carne, che è la famiglia, invera – fa vero – quotidianamente il simbolo posto una volta all’anno dalla grande chiesa.
Anche il servire a tavola – in cui consiste, fattualmente, l’atto dello spezzare il pane e dell’offerta del calice: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Luca 22, 27) – nella famiglia è abituale. Il papà e la mamma hanno lavorato per procurare il cibo. La mamma l’ha preparato, il papà lo mette nei piatti. Insieme lo “spezzano” ai figli piccoli, o ai genitori anziani.
Infine c’è il “servizio” della parola, che accomuna la mensa domenicale e quella familiare. A similitudine di chi presiede la prima di queste mense, i genitori nominano il cibo mentre lo danno ai figli e insegnano loro a parlare, mentre li aiutano a mangiare. Con i figli che crescono, cresce poi la conversazione e la mensa diviene la prima scuola di vita e anche il luogo di una quotidiana preghiera pregata.
Servire a tavola per noi cristiani comuni è dunque abituale, ma non è affatto abituale la percezione del suo significato ultimo e la sua somiglianza con il servizio dei preti e dei diaconi all’assemblea domenicale. Quel significato e quella somiglianza ci vengono segnalati dalle parole evangeliche, che possono essere intese davvero solo nella grande assemblea, in riferimento diretto all’atto compiuto da Gesù e nella vivente tradizione di esso attraverso i secoli.
Ecco dunque la piccola chiesa che apprende dalla grande chiesa parole, gesti e significati che lievitano evangelicamente il suo stare a tavola.
La parola di Gesù è efficace e opera ciò che significa non solo quando la pronuncia il prete nella grande assemblea, ma anche quando la pronunciano “due o tre riuniti nel mio nome” (Matteo 18, 20), e dunque anche quando la dicono i genitori ai figli.
Io parlo come se lo stare a tavola, in famiglia, fosse esperienza abituale: ma non sempre lo è! Il lavoro fuori casa di ambedue i genitori, gli orari e i trasferimenti possono rendere rara, o anche rarissima, l’esperienza dello stare a tavola insieme, in famiglia.
Occorre impegno per salvare quel polmone della vita familiare. Lo so bene io, che faccio il giornalista, che è un lavoro da schizzati e giramondo.
Essendo del tutto impossibile – per noi in famiglia – salvare il momento del pranzo, abbiamo puntato su quello della cena. La mia sposa e i miei figli ritardano il più possibile l’ora in cui si mettono a tavola, io anticipo come posso il rientro a casa e per le nove di sera, all’incirca, siamo là. Ciò comporta la rinuncia abituale alle cene di lavoro – che comunque mi risultano indigeste – e la necessità di telefonare, una o due volte la settimana, per dire rassegnatamente: “Andate avanti senza di me, chè poi arrivo!”
La questione è più saggio svolgerla in positivo, piuttosto che in negativo. Dall’esperienza eucaristica viene un input ispiratore di fraternità, uno slancio comunionale al quale dare attuazione nella costruzione della città terrena. Venendo da quella mensa tu, cristiano, sarai impegnato a estendere quella convivialità nel mondo e nell’umanità circostante. Dovrai cioè farti promotore di una convivenza informata – per quanto possibile – ai principi e ai sentimenti di quella convivialità.
Dovrai tendere a portare quel seme di convivialità nel mondo e nella storia, fino a quando saremo a mensa con il Signore nel Regno dei Cieli. Non dovremmo mai dimenticare che non siamo stabiliti qui, ma qui siamo in cammino, di passaggio, pellegrini.
Ma in pratica come dovremmo muoverci? Creativamente, dicevo. Provo a indicare una modalità concreta per quanto riguarda l’agire politico, nella partecipazione all’una o all’altra delle formazioni che caratterizzano la vita pubblica italiana.
Io questa “avventura” cristiana nella polis l’intendo così – e qui è un poco la mia “sintesi”, quello che mi era stato chiesto di “narrare” in questo convegno: mi farò portatore di coerenza eucaristica innanzitutto nella mia parte politica, nei luoghi dove meglio sono conosciuto e apprezzato.
Con l’Eucarestia in petto si può andare ovunque. Anzi: dobbiamo andare ovunque, assumere – se del caso – ogni responsabilità, ed essere lievito cristiano in ogni pasta umana di cui veniamo a essere parte.
Si tratta, in altre parole, di lottare innanzitutto per fare cristiani i circostanti, che parlano il nostro stesso linguaggio, che con noi condividono il grosso delle opzioni culturali, sociali e politiche; e non per bastonare, con il Crocifisso o con la Bibbia, i cristiani di altro orientamento.
Lievito dunque in ogni schieramento. E poi dialogo e tempesta di cervelli – Brainstorming, si dice oggi – sul “bene comune”, tra tutti i cristiani di ogni schieramento. Confronto aperto di tutti con tutti, su ogni tema, per cercare che cosa si possa fare nel concreto – non sulle alleanze e le decisioni politiche, che si prendono in altri luoghi, esterni all’ambito ecclesiale.
Nella comunità ecclesiale ci si consulta, ci si confronta, si studiano cristianamente le questioni. Poi ognuno sarà libero di prendere la sua decisione, sulla propria responsabilità, nelle sedi dell’azione politica. E potranno essere decisioni diverse tra loro, ma saranno almeno informate della diversità. Oggi invece nella comunità ecclesiale si evita la discussione, per paura delle divisioni – ed è un male, un indebolimento della testimonianza, un peccato di omissione.
Nella professione – e oggi nella conduzione del mio blog – come gioca la libertà del cristiano comune ispirata all’esperienza eucaristica? Io mi sono sempre proposto – e mi propongo tutt’ora – quella stessa funzione di lievito che descrivevo per la vita sociale e politica. Rendere comprensibile – nel linguaggio e nella sostanza – la vita cristiana al mondo secolare; e rendere comprensibili al mondo ecclesiale le obiezioni e le difficoltà di comprensione, ma anche i valori, del mondo secolare.
Si tratta insomma di parlare ogni linguaggio per raggiungere tutti, parafrasando un passo famoso delle lettere dell’apostolo Paolo. Siamo portatori di parole antiche che dobbiamo cercare di ridire in parole nuove. E siamo spettatori – e anche partecipi – di nuove esperienze dell’umano che dobbiamo raccordare, per quanto possibile, ai sentimenti che furono di Gesù.
Infine che ci può dire la coerenza eucaristica per la vita amicale e familiare? Vedendo la difficoltà dei miei figli – che sono cinque – e dei loro fidanzati e fidanzate e amici sfusi, a restare fedeli alla proposta cristiana che hanno ricevuto, in famiglia conduciamo da ormai sette anni una lettura continuata dei Vangeli che si chiama “Pizza e Vangelo” [perché prima si mangia una pizza e poi si legge il Vangelo], con incontri quindicinali.
Il mio suggerimento è di proporre e riproporre sempre ai nostri figli e ai giovani in generale la figura di Gesù e la sua parola, senza dare per scontata l’adesione di fede. Credo che tutti dovremmo avere più coraggio nel parlare a chi si allontana e a chi è stato sempre lontano.
Nel parlare ai giovani propongo questa avvertenza: come Paolo era preoccupato che la congerie delle osservanze giudaiche non nascondessero la novità di Cristo, così oggi le osservanze ecclesiastiche potrebbero nascondere ai nostri figli l’autentico messaggio di Gesù. Ai nostri giovani dobbiamo proporre il Vangelo e non Fatima, la Sindone o Medjiugorie.
Viene l’obiezione: ma siamo pochi! Dico che in forza dell’esperienza eucaristica non dobbiamo cedere a questa obiezione tentatrice. Già il fatto che due o tre si riuniscono nel suo nome – nel contesto secolare di oggi – è un dono immenso di Dio.