Appunti per un dibattito
Perché amare ancora questa Chiesa? Risposta breve: “Perché è la mia famiglia e la mia patria, perché in essa sto a mensa con il Signore e con i fratelli, perché nello scambio con i suoi santi visibili e nascosti si ravviva la mia fede nel Dio di Gesù Cristo e apprendo a cogliere i segni della presenza del suo amore nell’umanità di oggi, che ne ha grande bisogno”.
Lettore mio non temere, non mi sono montato la testa. So che grandi uomini negli ultimi decenni, specie a partire dal turbolento ’68, hanno scritto dei testi intitolati Perché sono ancora nella Chiesa (Joseph Ratzinger, Queriniana 1971), Perché rimango nella Chiesa (Hans Urs Von Balthasar, ultimo capitolo del volume Punti fermi, Rusconi 1971), Perché resto nella Chiesa (Hans Kueng, primo capitolo del volume Conservare la speranza, Rizzoli 1990), Perché restare? (Timothy Radcliffe, in “La Croix” del 31 marzo 2009). Non mi sogno di dire meglio ma sento di doverlo dire con parole mie.
Come se uno mi chiedesse
perché “amo ancora” mia moglie
In verità l’iniziativa non è stata mia. Non ho mai avuto la tentazione dell’abbandono. E non è mio l’atteggiamento di chi dice “nonostante tutto resto dentro”. Neanche mi garba l’espressione “questa Chiesa”, come se io potessi pensare a un’altra. Quanto poi all’amare la Chiesa l’atto mi è totalmente spontaneo. Quell’ancora e la stessa domanda mi suonano provocatori, come se uno mi chiedesse perché “amo ancora” mia moglie.
Ma so bene che c’è chi non ama più la moglie e conosco molti che non amano la Chiesa: si sono disamorati, letteralmente. Altri l’amano ancora ma con un amore tutto di testa, affaticato e stanco. A me interessa, preme, dialogare con loro. Non basta che io gli dica “leggi Von Balthasar”. Se appena appena li vedo interessati a sapere del mio amore, io glielo racconto.
E’ capitato che una parrocchia di Torino – quella dov’è parroco il vescovo ausiliare Guido Fiandino, una pasta d’uomo – mi abbia chiamato per un dibattito intitolato Perché amare ancora questa Chiesa, che si è tenuto l’11 novembre, con Alberto Melloni e Roberto Repole, moderatore il collega Francesco Antonioli. Mi preparavo all’appuntamento quando la rivista Communio – che stava lavorando a un fascicolo intitolato Credo Ecclesiam (ottobre-dicembre 2010) – mi chiedeva di narrare storie di conversione nelle quali sia la Chiesa a esercitare una qualche attrattiva, o spinta, o provocazione alla fede.
Ho dunque messo insieme i due lavori e qui ne do un ragguaglio minimo, rinviando al fascicolo di Communio chi voglia approfondire le storie di conversione. Mettendo insieme il risultato delle due indagini, dico che amo la Chiesa per la doppia ragione della notizia dell’amore di Dio per l’umanità che mi trasmette – in risposta alla quale io sono (divento o rimango) cristiano – e per i segni dell’amore di Dio tra gli uomini che mi veicola e che mi aiuta a riconoscere.
Dico ancora che questi segni – non tutti da lei posti, ma dei quali è pedagoga levatrice interprete e serva – costituiscono l’unica attrattiva che la comunità dei credenti può oggi esercitare sui non credenti. Aggiungo che questi segni – che chiamo anche “fatti di Vangelo” – sono frequenti oggi come sempre; e comunque più numerosi di quanti riusciamo a coglierne; e dunque oggi come sempre la Chiesa può essere amata. Qui è il cuore della mia risposta, essendo la domanda incentrata sull’amare “ancora”. Dico infine che in questa argomentazione per Chiesa intendo l’insieme dei credenti nel Dio di Gesù Cristo, che il cristiano comune incontra – simbolicamente – ogni volta che due o tre sono riuniti nel suo nome. Realmente ne incontra uno o due, simbolicamente li incontra tutti: tutti i battezzati, di ogni famiglia e confessione e anche quanti ritengono di non appartenere a nessuna Chiesa.
Segni dell’amore di Dio
nell’umanità di oggi
A questo punto dovrei svolgere il tema esemplificando per categorie i segni dell’amore di Dio nell’umanità di oggi, toccando almeno alcune delle attestazioni specifiche della nostra epoca: il martirio disarmato, l’accoglienza della vita da parte delle donne sole e delle donne minacciate da grave malattia (la prima linea della difesa della vita è sempre il cuore delle madri), il perdono agli uccisori dei parenti, l’accettazione del figlio menomato e la scelta del bambino menomato per l’adozione, la reazione all’handicap e il ruolo riconosciuto all’handicappato nella Chiesa, la celebrazione ecclesiale della propria morte, il riconoscimento dell’amore sponsale e le coppie missionarie, il genio della carità in ogni nuova frontiera dell’umano, il Vangelo annunciato agli ultimi (droga, aids, carceri, prostituzione, vittime di abusi sessuali), nuove forme di manifestazione della letizia nell’afflizione e nuove modalità di preghiera pubblica.
Ed ecco – all’interno di questo quadro – i “segni” che ho potuto indicare per nome, cioè alcune delle storie di conversione utilizzate per Communio e segnalate nella conversazione di Torino. La brigatista Fulvia Miglietta – abbandonata da tutti e divenuta nemica a se stessa – una sera vede dalla finestra della cella una croce su una cupola, in mezzo alla nebbia e il giorno dopo chiede di parlare con il cappellano che le procura una Bibbia e delle visite, si sente amata e torna cristiana.
Altri due carcerati: l’uno attirato alla chiesa da una lettera di vicinanza che gli scrive un professore avuto alle superiori (Arrigo Cavallina); l’altro da una parola di perdono che gli arriva dai familiari di persone che aveva ucciso (Pietro Cavallero). Altri avviano un cammino di conversione ascoltando il “perdono” di Giovanni Bachelet agli uccisori del papà (Barbara Palombelli) o quello di papa Wojtyla al proprio attentatore (Angelo Busia). Il perdono come amore attestato ai nemici.
Genitori che morendo
furono Chiesa ai figli
Due atei professi – una donna presa in una storia di droga e di aids (Enrica Plebani) e un intellettuale ribelle per omosessualità e altro (Giovanni Testori) – che ritrovano la fede nella vita eterna, l’una vedendo morire il padre e l’altro la madre “nella speranza della risurrezione”: i genitori qui furono Chiesa ai figli.
Due giornalisti che hanno ritrovato il coraggio di credere vedendo da vicino e per anni la forza della fede di Giovanni Paolo II, la sua capacità di stare di fronte al mistero e di mettersi in Dio (Domenico Del Rio, Marco Tosatti).
Altri due morenti di aids che si convertono quando sono prossimi alla disperazione: l’uno provocato a leggere i Vangeli e a chiedere il battesimo dalla carità di una suora ospedaliera (Enrico Barzaghi); l’altro entrando casualmente in contatto con la famiglia monastica di don Dossetti, dalla quale viene accolto e dalla quale riceve l’Eucarestia e la Scrittura, fino a divenirne monaco in articulo mortis (Paolo Caccone).
Questa è la chiesa: ama i derelitti, li accoglie, li invita alla tavola del Signore, risveglia in loro la speranza nella vita eterna. Questi sono i segni dell’amore di Dio nell’umanità di oggi. Io amo la Chiesa per questo.
Dove due o tre
sono riuniti nel mio nome
Sento crescere l’obiezione in chi mi legge: “Questi sono piccoli segni, questa è la Chiesa feriale. Ma la grande Chiesa? E’ amabile la grande Chiesa di oggi?”
Qui la mia risposta è tranciante: “La Chiesa non è nelle grandi cose” (sono parole del testamento del vescovo Luigi Maverna). Le “grandi cose” – seppure ve ne siano nella Chiesa di oggi: dai raduni di massa al Papato e agli episcopati, a ogni statistica del numero e delle opere – sono magari necessarie, ma non è in esse che troviamo l’essenziale della Chiesa. Le strutture, le opere, il diritto, il ministero, il governo hanno lo scopo di rendere possibile la lettura della Parola, la celebrazione dell’Eucarestia e una qualche continuità nel servizio della Carità; tuttavia non è in esse la Chiesa ma “dove due o tre sono riuniti nel mio nome”.
Sento ripresentarsi l’obiezione di prima: ti pare che quel governo, quelle strutture, quelle decisioni oggi siano gestiti in maniera ottimale? No, credo proprio di no e qualche volta capita anche a me di segnalare qualche inadempienza: si dovrebbe avere meno timore del confronto e anche del conflitto, un più fattivo rispetto delle responsabilità laicali, metodi collegiali per le grandi decisioni, maggiore tolleranza interna. La tolleranza l’intendo sia da parte dell’autorità verso le varie componenti del Popolo di Dio, sia tra l’una e l’altra componente.
Ma essendomi fatto vecchio leggendo storie vicine e lontane di Chiesa alta e bassa – so che una gestione ottimale non vi è mai stata e mai vi sarà. Quella di oggi mi pare migliore di quella di ieri, se tra l’oggi e lo ieri mettiamo un mezzo secolo, o un secolo.
Sopravvalutazione
del fattore governo
Sono anche convinto che mai come oggi vi sia stata nella nostra Chiesa una così grande sopravvalutazione del fattore governo, sia da parte di chi lo esercita, sia da parte di chi lo contesta. Per aiutarci ad amare la nostra Chiesa dovremmo compiere un’operazione di riequilibrio, dentro di noi e nella pedagogia comunitaria: ridimensionare l’importanza del fattore governo; prestare attenzione ai segni dell’amore di Dio nel mondo di oggi.
Termino con una parabola che prende spunto da una battuta di uno dei sette monaci di Tibhirin, nel film Uomini di Dio: «Siamo come uccelli sul ramo, non sappiamo se e dove voleremo». I cristiani che si fanno portatori del Vangelo sono straordinariamente indifesi in mezzo agli orrori del mondo. Come uccelli sul ramo, possono confidare soltanto sull’aiuto di Dio. La pressione delle potenze mondane li spinge a volare, a lasciare il campo e a scegliere il nascondimento. I segni dell’amore di Dio li incoraggiano a restare e a giocare qui e ora la loro vita.
Luigi Accattoli
Il Regno 20/2010
[…] anche “fatti di Vangelo” e che sono l’argomento centrale delle mie conferenze. Qui – Marco – trovi una presentazione aggiornata di quella mia […]