«Dio mio, non dovevi farmi questo». Sono le parole di un uomo che ha perso sotto le macerie de L’Aquila due sue figlie.
E’ l’attacco di uno degli ultimi articoli scritti da Gianni Baget Bozzo (1925-2009), il prete e politologo genovese che ha scritto per tanti quotidiani e soprattutto per La Repubblica, quand’egli era di sinistra (per un ventennio, a partire dal 1976) e per Il Giornale quand’era ritornato a destra (gli ultimi quindici anni della sua vita). Don Gianni morirà un mese dopo questo articolo, l’8 maggio. Mi piace considerare una preghiera pubblica questo suo testo estremo e pieno di fede. Propriamente io vorrei intendere come preghiera quell’esclamazione del terremotato che grida a Dio «non dovevi farmi questo» ma non sono riuscito a sapere chi l’abbia pronunciata, forse in un servizio televisivo, forse in una radiocronaca, chissà. E allora attribuisco quella preghiera al narratore che l’ha resa celebre, cioè a don Gianni che per tutta la vita ha cercato i segni dell’amore di Dio nel nostro tempo e ne ha dato conto nei media con grande inventiva.
In quel suo articolo si leggevano poi queste considerazioni, evangeliche e quasi accorate, in una prosa ormai affaticata dalla salute che andava scemando:
È l’interrogativo che ogni credente ha dinanzi al male che lo coglie e non riesce ad afferrare la provvidenza di un Dio onnipotente nella vita che gli è tolta, sia essa la propria e, ancor più, quella delle persone care. Questa domanda sale da tutto un popolo cristiano come è il popolo abruzzese. Nelle Litanie dei santi che erano un elemento portante della liturgia tradizionale, i cristiani invocavano da Dio la liberazione dal flagello del terremoto, messo allora alla pari della fame, della guerra e della peste. La domanda sale anche più forte perché colpisce in terra aquilana la distruzione delle chiese, novanta secondo la tradizione. Ed è colpita la Basilica di Colle Maggio, la gloria di Celestino V, colui che pensò che essere monaco era più importante che essere Papa (…).
Non è stata notata la coincidenza del terremoto abruzzese con la liturgia della settimana santa, il suo sovrapporsi – nella realtà della morte e della distruzione – ai simboli liturgici della passione di Cristo. E la liturgia legge nella domenica delle palme il Vangelo di Marco. È il Vangelo che dà della passione di Cristo la versione più drammatica, perché pone sulle labbra di Gesù le parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato». Gli altri Vangeli, specie quello di Giovanni, nascondono queste parole che, pur essendo testimonianza di una perfetta fedeltà verbale perché citano l’inizio del Salmo 21, mantengono però la loro radicale crudezza. Eppure in quel Vangelo avviene il singolare fatto che un centurione romano, vedendo la morte di Gesù, esclama: «questo è veramente il figlio di Dio».
Il popolo abruzzese è stato formato dalla liturgia cattolica e ha sofferto nella sua storia numerosi terremoti, è diventato un popolo che conosce il soffrire e vede in questo un rapporto con il figlio di Dio che manifestò umanamente il volto di Dio nel mistero dell’uomo. La coscienza umana sopporta la necessità del morire e in questo ha visto la vita divina sorreggere il sentimento del contrasto tra lo spirito che si sente immortale e un corpo che sa di morire. Per questo il popolo abruzzese reagisce alla sofferenza affermando la continuità della vita, rimotivandosi a vivere. Il terremoto rappresenta sempre un sentimento di una impotenza umana, la piccolezza dell’uomo di fronte a una terra che non è amica e su cui egli costruisce la sua tela di civiltà, le sue umili case, le sue splendenti Chiese che vivono nella precarietà di una terra che può scuotere l’uomo come questi scuote le formiche.
Questi sentimenti cristiani sono nel fondo della coscienza popolare e spiegano la solidarietà universale che unisce coloro che non hanno avuto la prova del terremoto a rischiare le loro vite per salvare ciò che rimane nascosto sotto le macerie. È la vita che rifluisce e vi è un impegno umano ad appropriarsi e portare su di sé la disperazione che può invadere il cuore di chi è stato privato dai suoi affetti più cari. Quasi a consolare nella tragedia umana coloro che di questa condizione dell’uomo sono rimasti vittime.
Qui si può leggere l’intero articolo pubblicato da Il Giornale il giovedì 9 aprile 2009 con il titolo La forza per risorgere.
[Giugno 2010]