La notizia della morte di qualcuno è un momento fecondo per la vita cristiana, che va colto con impegno. Può aiutarci a incontrare nel Signore quel fratello, o a recuperare in morte un rapporto che fu difficile, o a purificarlo nella penitenza per il peccato che possiamo aver compiuto con lui o contro di lui.
Per essere concreto, dirò delle tre notizie di morti che più mi hanno punto negli ultimi due mesi:
– all’inizio di dicembre mi arrivò quella di don Emilio Gandolfo, il parroco ucciso a Vernazza, che avevo conosciuto e dimenticato negli anni;
– a metà dicembre quella del padre Riccardo Palazzi, che era per me come un fratello e con il quale parlo ogni giorno da quando se n’è andato;
– in gennaio quella – appunto – di Bettino Craxi, del quale mai fui davvero conoscente, ma del quale sono divenuto amico in morte e proverò a dire in che maniera e con quale travaglio.
Don Emilio Gandolfo che arrossiva sempre
Don Emilio Gandolfo, dunque. Un uomo d’oro, un gran prete, ora un martire della carità: forse un balordo, forse un immigrato allo sbando l’ha ucciso il 2 dicembre a coltellate, nella sua casa, che non chiudeva a nessuno. Aveva 80 anni. Si era ritirato a fare il parroco nella terra d’origine, sette anni fa, in capo a una vita di studi, di viaggi e di vitali amicizie. Aveva insegnato per vent’anni al liceo Virgilio di Roma, aveva mantenuto legami personali forti e sapienti con tanti che gli erano stati alunni e da ogni dove d’estate andavano a Vernazza a sentire le sue omelie. Lui mandava loro due lettere all’anno, per Natale e Pasqua. Era stato consigliere ecclesiastico dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Tante volte aveva accompagnato gruppi di pellegrini in Terra santa. Aveva tradotto Gregorio Magno.
Ha detto di lui – al collega Alberto Bobbio, di Famiglia cristiana – il professore di storia Beppe Igniesti, che fu suo alunno: “Poteva starsene a Roma a studiare. Ha frequentato i diplomatici. Eppure mai si è lasciato sedurre, da nessuno. Gli interessava solo il Vangelo”.
Ebbene, ecco il punto: io don Emilio l’ho incontrato e non l’ho capito. L’ho conosciuto quand’era consulente all’ambasciata. Era troppo timido per quel lavoro. Io cercavo notizie e lui non ne aveva e quando le aveva si nascondeva. Arrossiva per nulla, temeva i giornalisti. Si offriva a tutti, davvero disarmato, ma lo capiva solo chi l’amava. Io così tanto non l’ho capito che quando ho letto la notizia della morte sul mio terminale, mi son detto: ma guarda questo prete, io ne ho conosciuto uno che aveva un nome simile e che viveva a Roma… Solo quando ho visto la foto l’ho riconosciuto.
L’insegnamento è questo: possiamo passare accanto a dei santi, qualcuno di loro sarà un giorno un martire e tante volte – il più delle volte, per quello che mi riguarda – non li vediamo. A loro interessa solo il Vangelo e questo ci secca. Dopo qualche anno, non ricordiamo neanche d’averli conosciuti. La loro morte ci provoca una salutare confusione, nel pianto li recuperiamo.
L’Exultet del padre Riccardo Palazzi
Il padre Riccardo Palazzi invece l’ho amato per tempo e ora lo amo più che mai. La sua santità era evidente anche ai non vedenti come me. Costretto da un mieloma all’assoluta immobilità, ha continuato a sorridere, a esprimere gioia di vivere, a rendere lode per il fatto che riusciva a vedere dalla finestra, a sera, “il pianeta Giove che è il più luminoso”. Quattro anni è durata la sua crocifissione. Credo abbia patito più di Cristo. Per la messa di addio, aveva chiesto ai confratelli carmelitani che gli cantassero l’exultet pasquale. E l’hanno fatto, il 18 dicembre, nella chiesa romana di San Martino ai Monti. È stato il più bell’exultet della mia vita.
La notizia della morte di padre Riccardo è stata per me del tutto diversa di quella di don Emilio. Riccardo si era manifestato: mi ero abituato a pregare con lui nei mesi in cui era nel reparto di rianimazione dell’ospedale di San Giovanni, aveva battezzato due dei miei figli, mi diceva che per lui era importante una carezza, una parola. E io gli facevo la carezza, cercavo la parola. Parlavo con lui della sofferenza e della croce. A suo tempo aveva assistito in morte, insieme a me, una persona che mi era cara.
La notizia della morte di don Emilio è stata per me come un’ubriacatura da cui mi sono svegliato in penitenza per l’uomo che non avevo capito e che scoprivo in morte. Mi sono portato di colpo, attraverso le lacrime, all’altezza della sua morte: in quella posizione cioè che sola ci permette di cogliere la verità di una creatura e che un cristiano dovrebbe cercare di conquistare, per sé e per tutti, ben prima del passaggio da questa vita.
Invece all’altezza della morte del padre Riccardo c’ero già: mi ci aveva condotto lui, con evangelica trasparenza. Egli non faceva che narrare a tutti la sua speranza della resurrezione. È la persona con la quale più ho parlato di Gesù, dopo i miei familiari.
Craxi o della mia lentezza d’anima
Craxi, infine. All’altezza della sua morte, cioè in una posizione di relativa verità nei suoi confronti, ci sono arrivato – ho già detto – non solo dopo la sua morte fisica, ma con personale travaglio.
Che c’entra Bettino Craxi, con questi testimoni della fede? Nulla, ma anch’egli è un fratello che muore e anche per lui sono andato in confusione al momento della morte, avvertendo davvero solo allora – e cioè troppo tardi – l’offesa che gli era fatta. Aveva delle responsabilità, certamente. Ma è stato colpito in modo sproporzionato: ha fatto quello che facevano tutti, solo esponendosi di più e ha pagato anche per gli altri.
Ho apprezzato quelli che hanno sfidato l’opinione pubblica – o i media: forse l’ipersensibilità anticraxiana era più dei media che della gente – e hanno tentato qualcosa perché Craxi potesse tornare in Italia a curarsi, o sono andati ad Hammamet per l’ultimo saluto. Ancora di più ho apprezzato Cossiga che è andato laggiù quando Craxi era ancora in vita e l’ha chiamato “amico” e dopo la morte è tornato laggiù e al momento della sepoltura – dato che non c’erano preti – ha preso per mano Anna e Stefania sconvolte e le ha aiutate a dire l’Eterno riposo.
Non ho mai votato per Craxi, né per Cossiga, né per Berlusconi, che è andato anche lui laggiù per quella messa: ma questo non interessa, lo dico solo per chiarire che qui parlo della morte – cioè della vita – e non di politica. Ho apprezzato anche il ministro Dini e il sottosegretario Minniti che sono andati laggiù nella posizione più scomoda. Tutti costoro – in questa occasione – sono stati migliori cristiani di me. Ma non è questo che interessa.
Il punto che mi preme è quest’altro: da quando Craxi è stato messo sotto accusa, e dunque per ben otto anni, io non ho saputo portarmi all’altezza della sua morte. Non sono riuscito cioè a guardare alla sua vicenda con gli occhi con cui la vedo ora.
Ora riesco a configurarmi l’uomo, che mi è sempre sfuggito. Eppure in tre occasioni – a Palazzo Chigi, in via Del Corso e in Vaticano – gli ho fatto domande, essendo presente come giornalista ai suoi trionfi. Tante volte ho scritto di lui. Per ragioni professionali ho ascoltato e letto per intero suoi discorsi e saggi. Ho studiato a lungo la riforma del Concordato da lui voluta “con intelligenza e coraggio”, dice ora il vescovo Nicora. Sul Concordato ho curato persino una pubblicazione, dodici anni fa.
Dunque avevo tutti gli elementi per vedere oltre e non ci sono riuscito.
Nel caso di don Emilio mi ha tradito la ricerca di notizie, che lui non aveva. Nel caso di Craxi, forse l’esigenza di avere in mente – magari sullo sfondo di tangentopoli – un vero cattivo: intendo dire un’immagine temibile di politico corrotto e corruttore. Non potevano bastare gli inermi Citaristi e Forlani. Né il povero Armanini. Né i dodici suicidi che tangentopoli (o i titoli dei giornali che anticipavano come condanne gli avvisi di garanzia: perché la sostanza di tangentopoli è certo da apprezzare) ha provocato in un solo anno, tra il 1992 e il 1993.
Ora abbiamo visto la lettera di Craxi al papa – letta ai giornalisti dalla figlia Stefania e pubblicata dai giornali il 21 gennaio – in risposta agli auguri per l’intervento chirurgico di novembre: “Santo padre, don Verzè mi porta il suo messaggio augurale. Grazie. La mia grande fiducia è in lei. Offro la mia sofferenza per il mio paese e per le intenzioni di vostra santità”.
Ora sappiamo – da una dichiarazione del vescovo di Tunisi, Fouad Twal, che ha celebrato la messa di addio – che il Craxi esule “stava scrivendo un libro sui martiri cristiani del Nord Africa” e che “la fede non l’aveva mai perduta: credeva nell’esistenza di Dio e nell’immortalità dell’anima, leggeva il Vangelo e lo conosceva bene”.
Guardare a tutti – e per tempo – con gli occhi della pietà
Ora che abbiamo visto le sue mani intrecciate alla corona del rosario che gli aveva mandato il papa, siamo in grado di guardare a Craxi con pietà. Ora tutti gli invochiamo la misericordia del Signore. Ora rivediamo il giudizio. Una dichiarazione di Navarro-Valls e il messaggio del papa alla vedova Anna, una prima dichiarazione di Attilio Nicora sulla revisione del Concordato (ma accenna anche alla fede “che non gli era estranea”) e una successiva del card. Ruini sull’opera politica aiutano anche i più restii ad andare verso “un’interpretazione equa e sincera” (Ruini).
Ma oggi è tardi. Un cristiano dovrebbe riuscire a guardare a tutti i fratelli, e per tempo, con gli occhi della pietà. Lo sguardo della pietà è quello che più si avvicina alla veduta che di quel fratello ha il Signore, nella sua misericordia. Portarsi all’altezza della morte di qualcuno vuol dire guardarlo in vita con quell’occhio che generalmente di è donato solo in morte, quando il suo passaggio dalla vita ci tocca davvero.
Analogamente portarsi all’altezza della propria morte (che è operazione primaria della vita cristiana) vuol dire guardare alla propria avventura dal punto di vista del giudizio di Dio. Se io mi porto all’altezza della morte guardo solo all’essenziale, non mi perdo in rispetti umani, non faccio di una paglia un pagliaio perdendo la misura delle cose.
I cristiani sono stati capaci di dire su Craxi una parola diversa rispetto a quella degli altri, lungo gli anni? Mi pare di no. E mi pare che questo sia stato un errore. E non lo dico dei vescovi, o della CEI, ma di me e di te che leggi. Perché mi pare che né io né tu l’abbiamo fatto ed è questo nostro dovere di cristiani comuni che mi interessa.
Forse l’abbiamo pensato che era ingiusto far morire in quell’esilio Craxi e rischiare che se ne andasse sotto quei processi Andreotti. Certamente abbiamo pensato che non era giusto processare senza sosta il malatissimo Citaristi: ha accumulato venti processi e oltre trent’anni di carcere, tutti lo considerano onesto e nessuno sa dire su di lui una parola sensata. E io personalmente ho tremato sentendolo raccontare d’aver “invocato spesso” la morte e di aver scampato il suicidio “solamente per la fede”.
Forse abbiamo pensato che tutto ciò non era secondo il Vangelo. Ma non l’abbiamo detto – neanche in famiglia e forse neanche a noi stessi – per non comprometterci, o per non compromettere il Vangelo. Se un cristiano non si vergogna del Vangelo, deve dire ogni sentimento che gli viene di là. Senza timore di compromettere la parola di Dio, che è come una spada che taglia da ambedue le parti e che nessuno può compromettere. E soprattutto senza timore per la nostra compromissione, almeno se non facciamo politica.
Alcuni cristiani hanno difeso Craxi per ragioni politiche. Altri per ragioni politiche l’hanno combattuto. Ma una pietà non politica e tuttavia reale, cristianamente motivata, per Craxi vivo non l’abbiamo espressa. Tra i cristiani d’Italia c’è questa tentazione del nascondimento – fino al nascondimento della pietà – davanti alle questioni controverse, forse in reazione alla sovraesposizione politica (compresa la sovraesposizione della pietà) dei decenni democristiani.
L’invito a non vergognarsi del Vangelo è anche un invito a ribellarsi all’indebito nascondimento dei cristiani, che rende clandestino il Vangelo nella nostra società.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 4/2000