Un ragazzo che conosco è arrestato per droga. Tutti intorno restiamo smarriti. I genitori passano la notte a piangere e pensano d’aver sbagliato tutto con quel figlio.
Per quattro giorni non riescono a fargli visita, perché c’è il ponte di Tutti i santi e perché non sono pratici di avvocati e tribunali: “Penserà che l’abbiamo abbandonato”. Si vergognano con gli altri e quasi si vergognano con lui.
I carabinieri sono andati di notte e li hanno svegliati perché assistessero alla perquisizione della camera. Poi l’hanno portato via.
“Tra tutti i nostri parenti, non era mai capitata una cosa simile”. Provo a dire che la vergogna non è la sorte peggiore, ma non finisco la frase e mi rannicchio a pensare ai miei cinque figli: se arrivassero i carabinieri di notte, con uno di loro ammanettato, che non guarda e non dice.
Non ho parole, che sono la mia unica risorsa. Ma posso pregare. Da quando l’hanno arrestato, gli faccio visita ogni giorno parlando con il Signore.
Vogliono sapere dove ha preso “la roba”
Parto da una “composizione di luogo”, come suggeriva Ignazio di Loyola. Quel ragazzo in cella, che non sa dove battere la testa, arrabbiato con tutti. Vogliono sapere dove ha preso “la roba”. Ma se parla, mette a rischio se stesso e i suoi.
Ha sempre detto che era il più sfigato, e adesso quel suo motto è quasi vero. La mia compassione per lui, come fosse un mio figlio. La mia vicinanza ai genitori, perché possano stargli vicini.
Quando uno è in carcere ci vuole un avvocato. Ho messo anch’io un avvocato per quel ragazzo, come hanno fatto i genitori: è un suo zio, al quale era legatissimo, che ora è morto. Voleva bene al nipote. Non era sposato e lo teneva nella sua camera, quand’era piccolino. Io avevo confidenza con quello zio e la mantengo ancora e gli ho detto: tu sai come prenderlo.
La preghiera ha molti personaggi. In essa io posso parlare con chi è lontano, con chi non mi conosce, con i morti e con gli angeli. Dunque l’angelo di quel ragazzo. Ma soprattutto con nostro Signore.
La composizione di luogo mira a introdurre Gesù in quella cella. Gesù che sa tutto dei ragazzi che scappano, per uno dei quali ha raccontato la parabola più bella. Gesù che ha conosciuto le manette e il pianto della madre.
Entra nella tua camera e chiudi la porta
Quando mi fermo a parlare con il Signore, chiamo intorno a me tutti quelli di cui ho bisogno in quel momento. Lo faccio qualche volta quando sono in compagnia, per esempio al momento di metterci a tavola. Ma lo faccio assai più spesso quando sono solo.
Sempre la mia preghiera si popola di presenze. Mi sono chiesto se sia giusto.
“Quando preghi, entra nella tua camera e chiudi la porta”, dice Gesù in Matteo 6,6. Ma che vuol dire, nella città mondiale, entrare in camera e chiudere la porta?
Matta el Meskin nei Consigli per la preghiera (Qiqajon, Magnano 1988) afferma che il comando di chiudere la porta deve valere “nei confronti del cuore, dei sensi e delle persone”.
“Riguardo al cuore – scrive l’abba del monastero copto di San Macario a Scete, in Egitto – è necessario che tu getti via assolutamente tutte le preoccupazioni, i pesi, le ansietà e i timori”, in modo da poterti considerare “come morto al mondo carnale e posto di fronte a Dio”.
Salto il meticoloso paragrafo sui sensi – che mette alla porta le cose “viste e sentite” – e passo a quello sulle “altre persone”. Afferma che occorre “purificare le relazioni”, chiudendo fuori della camera l’eventuale amore verso una persona; le preoccupazioni per le persone care, per la loro salute e il loro avvenire; l’ostilità o la simpatia verso gli altri.
Ammiro Matta el Meskin e ne seguo – come posso – i consigli. Ma sono consigli di un monaco. Uno sposato dovrà prendere distacco dalla sposa?
Con l’anima dispersa e in tumulto
Un monaco di casa nostra – Giuseppe Dossetti – citava Matta el Meskin, ma preferiva dare un consiglio “più semplice”: “Farci dapprima un segno di croce consapevole e convinto, richiamando alla mente in modo globale il pensiero del nostro stato di dispersione o di tumulto interiore, accompagnandolo con un certo desiderio e invocazione, almeno iniziale, della compunzione e della grazia divina, e poi quasi subito leggere un breve tratto di Scrittura (per esempio qualche riga del Vangelo o qualche versetto di un Salmo, del Salmo 51/50 per esempio) e quindi iniziare a leggere la pericope oggetto della nostra preghiera personale” (“Quattro riflessioni sulla preghiera”, in La parola e il silenzio, Il Mulino, Bologna 1997, 289).
Interrogo i maestri della preghiera per trovare la mia strada. Ho letto in agosto – mentre ero in vacanza a Canale d’Agordo – la Vita di Teresa d’Avila ed è stato un bell’incontro.
Mi chiedevo come mai Edith Stein fosse tornata credente leggendo, una notte, quel libro e ora intuisco la risposta: Teresa vive una contagiosa storia d’amore con il Signore che cerca, accoglie e corteggia nella preghiera.
Ammaliato dalla Vita, ho letto il Cammino di perfezione ed ecco al capitolo 26 i consigli su “come raccogliere i pensieri” in vista della preghiera: “Anzitutto si fa il segno della croce, poi l’esame di coscienza, indi si recita il confiteor“. E fin qui siamo nella precettistica della grande tradizione, alla quale si rifà Dossetti quando propone il segno della croce e la domanda della compunzione.
Ma ecco il colpo d’ala che rivela il genio della preghiera che Teresa ebbe – io credo – più d’ogni altro in Occidente: “Poi, siccome siete sole, cercatevi una compagnia. E quale può essere la migliore, se non quella del Maestro che vi ha insegnato la preghiera che state per recitare? Se vi abituerete a tenervelo vicino, non solo non vi mancherà mai, ma – come suol dirsi – non potrete mai togliervelo d’attorno”.
“Se lo guardate vi verrà di parlargli”
Qui si sente l’originalità di Teresa, che descrive con passione di donna l’anima che vuole “rimanere in solitudine con il suo sposo, mettendo alla porta tutte le cose del mondo”. Spiega alle sue “figliole” che fare questo è facile: “vi chiedo solo che lo guardiate”, come fa “una buona sposa con il suo sposo”. La preghiera parlata arriverà da sé: “Non solo lo guarderete, ma vi verrà pure di parlargli”.
Andare vicini a Gesù e guardarlo e parlargli come il tutto della preghiera: questa sì che è felicità! Ma che vuol dire “mettendo alla porta tutte le cose del mondo”?
È lo stesso esercizio suggerito da Matta el Meskin. E infatti Matta, Dossetti e Teresa sono monaci. Ma io non sono monaco! Che farò dunque?
Cerco di “mettermi alla presenza di Dio”, come dice il forte linguaggio della tradizione. A tale scopo Ignazio nel primo degli Esercizi spirituali invita a realizzare una “composizione visiva del luogo”, cioè a “vedere con la vista dell’immaginazione il luogo fisico” dove “si trovino Gesù Cristo o nostra Signora, secondo ciò che voglio contemplare”.
La mia composizione visiva non mira a un luogo fisico, ma familiare: richiamo i volti della sposa e dei figli, tra i quali poi chiamo il volto di Gesù.
Ecco un’altra faccia rispetto alla preghiera del monaco: egli vuole essere solo, nell’incontro vertiginoso con il Signore, “solo con il solo” e chiude tutti fuori dalla porta. Io invece devo portare con me la sposa e i figli.
La coppia è la Chiesa nella carne: come il battezzato non prega mai fuori della Chiesa, così lo sposato non prega mai fuori della coppia. Un padre non prega senza prendere con sé i figli.
Il mattutino di un giornalista
Mi sveglio dunque la mattina e lentamente la stanza e la vita riprendono il loro posto intorno a me. Questo è un movimento spontaneo dell’anima. Su di esso s’innesta – quando l’anima non è agitata – il movimento della preghiera.
Torna per prima l’immagine della sposa, che dorme con me. Tornano i volti dei figli e della mia mamma che ha 95 anni e dice di pensarmi sempre. Torna la memoria – non sempre tranquilla – del lavoro: che ci sarà oggi sui giornali?
Comando ai giornali di lasciarmi al mio mattutino
Convoco – con la mente – le persone che amo e ne faccio un gruppo di preghiera. Prendo per mano la sposa e la figlia, o il figlio che forse più degli altri oggi ha bisogno d’essere tenuto per mano e presento tutti a Gesù. E anche i fidanzati dei figli e i miei fratelli e sorelle (che sono cinque come i figli) e il fratello più grande che non c’è più e il mio papà che se n’è andato più di quarant’anni fa. Chiamo chi mi ha chiesto aiuto, o chi so che più ne ha bisogno.
Questa è la mia concentrazione. Direi che si tratta di una rassegna dei volti. Attendo un momento, perché si quietino i sentimenti che essi possono smuovere e con tutti loro mi volgo al Signore. Le parole del Padre nostro coronano quell’appuntamento mattutino.
Così visito, di prima mattina, quel ragazzo in carcere. Mi basta un’occhiata per sapere come ha passato la notte. Quando avevo la sua età, da militare, feci tre giorni di carcere per una sciocchezza, ma com’ero furioso!
Mi è facile anche chiamare Gesù in quella cella che non conosco. Bastano le parole “ero in carcere e mi avete visitato”. Una volta che l’ho coinvolto, la sua umanità e la sua parola ci porteranno al Padre.
Resto lì e guardo il mio Signore tenendo una mano sulla spalla del ragazzo, come fanno i padrini della cresima. Prolungo per quanto posso questo sguardo e solo alla fine prego – anche a nome del ragazzo e dei suoi genitori e del suo “avvocato” – le parole che promettono la “liberazione ai prigionieri”, quelle del “non ci indurre” e del “liberaci dal male”.
La droga è la tentazione dell’epoca e questa è la mia preghiera al tempo della droga.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 20/2002