Franco Venturini ironico e gentile, conoscitore degli uomini, curioso delle donne
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Luigi Accattoli
Colto, riservato, gentile: Franco Venturini era un signore del giornalismo. Siamo stati compagni di stanza al Corsera per un decennio. La cosa che più mi intrigava di lui, osservandolo alla scrivania di fronte alla mia, era la cura con cui ritagliava gli articoli da conservare.
Un rito tipico del giornalista d’altri tempi, tant’è che al Corsera, quando venivi assunto [io ci arrivai nel 1981, lui nel 1986] gli impiegati della segreteria di redazione ti facevano trovare sul tavolo la macchina da scrivere, l’agenda della testata, un paio di lunghe forbici e l’intero arsenale della cancelleria d’ufficio. Ma con le forbici dominanti su tutto.
Facemmo insieme il corso per l’uso del computer, verso il 1995 e da allora io passai all’archiviazione digitale ma lui – più giovane di tre anni – continuò a ritagliare. Glielo dissi e lui mi rispose che “sistemare i fogli” l’aiutava a “ordinare le idee”.
Non entrava negli argomenti che non conosceva, tipo il Vaticano, ma essendo stato lui corrispondente da Mosca parlavamo spesso dell’Ortodossia russa e ucraina, specie intorno al 1989, quando capitò anche a me di passare una settimana tra Mosca e Kiev per le celebrazioni del Millennio della Santa Rus’.
Era ironico e affabile nella conversazione. Curioso delle donne. Mai una parola sboccata. Parlava più con gli occhi. Consapevole il giusto della propria bravura nella comprensione delle persone. Non sparlava di nessuno.
Figlio di ambasciatore, cosmopolita, poliglotta. Elegante nel vestire, riservatissimo sulla vita privata. Aveva tre figli: Federica, Marco, Vittoria. Ieri Marco ha concluso così, in chiesa, il suo saluto: “Se io riuscissi a realizzare anche solo la metà di quanto ha vissuto mio padre, mi riterrei fortunatissimo. Buon viaggio papà”.
Colto, riservato, gentile: Franco Venturini era un signore del giornalismo. Siamo stati compagni di stanza al Corsera per un decennio. La cosa che più mi intrigava di lui, osservandolo alla scrivania di fronte alla mia, era la cura con cui ritagliava gli articoli da conservare.
Un rito tipico del giornalista d’altri tempi, tant’è che al Corsera, quando venivi assunto [io ci arrivai nel 1981, lui nel 1986] gli impiegati della segreteria di redazione ti facevano trovare sul tavolo la macchina da scrivere, l’agenda della testata, un paio di lunghe forbici e l’intero arsenale della cancelleria d’ufficio. Ma con le forbici dominanti su tutto.
Facemmo insieme il corso per l’uso del computer, verso il 1995 e da allora io passai all’archiviazione digitale ma lui – più giovane di tre anni – continuò a ritagliare. Glielo dissi e lui mi rispose che “sistemare i fogli” l’aiutava a “ordinare le idee”.
Non entrava negli argomenti che non conosceva, tipo il Vaticano, ma essendo stato lui corrispondente da Mosca parlavamo spesso dell’Ortodossia russa e ucraina, specie intorno al 1989, quando capitò anche a me di passare una settimana tra Mosca e Kiev per le celebrazioni del Millennio della Santa Rus’.
Era ironico e affabile nella conversazione. Curioso delle donne. Mai una parola sboccata. Parlava più con gli occhi. Consapevole il giusto della propria bravura nella comprensione delle persone. Non sparlava di nessuno.
Figlio di ambasciatore, cosmopolita, poliglotta. Elegante nel vestire, riservatissimo sulla vita privata. Aveva tre figli: Federica, Marco, Vittoria. Ieri Marco ha concluso così, in chiesa, il suo saluto: “Se io riuscissi a realizzare anche solo la metà di quanto ha vissuto mio padre, mi riterrei fortunatissimo. Buon viaggio papà”.
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