Può capitare che sfogli il giornale e trovi – tra le notizie più nere – una preghiera, inaspettata come un fiore tra i sassi. Raccolgo questi fiori e li metto qui come in un vaso. Possono dare un’idea di come la preghiera sopravviva sepolta nel cuore di tanti e riviva nel momento del bisogno.
Enza Geraci
Domenico Geraci (44 anni, sindacalista di Caccamo, Palermo, ex consigliere provinciale del Ppi e candidato sindaco designato dal Centrosinistra) viene ucciso dalla mafia, con cinque pallottole, mentre rientra a casa la sera dell’8 ottobre 1998. Quattro giorni più tardi Enza – la vedova – dice in televisione, ai microfoni della trasmissione La vita in diretta, queste parole di Vangelo:
«Perdono gli assassini di mio marito. Pure colui che ha sparato. L’ho fatto la stessa sera del delitto, quando l’ho visto morto per terra» (Corriere della Sera, 13 ottobre 1998).
Armando Piazza
Armando, 64 anni, resta chiuso per dieci giorni in ascensore, nel complesso alberghiero di cui è custode, a Sestriere (Torino). Al telegiornale di Rai 1 delle 20, il 21 agosto 1998, gli domandano «che cosa l’ha salvato» e risponde così:
«La fede! Credo sia stata soprattutto la fede. Sono riuscito a far passare i nove giorni pregando».
Giuseppe Soffiantini
Giuseppe, imprenditore di Manerbio (Brescia), viene rapito il 17 giugno 1997 e liberato il 13 febbraio 1998. Stupisce tutti la serenità con cui parla dei rapitori e dell’incredibile vicenda:
«Ho sofferto tantissimo, ma legato a quella grossa catena ho riscoperto il valore e il potere della preghiera. Quando pregavo per la mia liberazione, mi sforzavo sempre di accogliere il perdono nel mio cuore. E ogni volta che pregavo per i miei rapitori, uomini di grande ferocia, loro diventavano più buoni» (Avvenire, 7 giugno 1998).
«Gli dicevo che pregavo per loro. Li ho perdonati, sì li ho perdonati. Anche se minacciavano di ammazzarmi. Ma come potevo chiedere un aiuto al Signore se poi proprio io non fossi stato capace di perdonare? (…) Il giorno del rapimento portarono via anche una borsa dalla mia casa. Dentro c’era una corona del rosario. Era di mia moglie. L’aveva avuta durante un’udienza in Vaticano dal Papa. Quando uno dei carcerieri l’ha trovata è venuto da me e mi ha detto: se la vuoi, questa viene da casa tua. Me la sono subito messa al collo. E’ stata di grande conforto. Sentivo che il Signore era con me (…) Gli dicevo: guardate che io prego anche per voi. Rispondevano che non ci credevano al Signore. Ma io speravo che Dio gli toccasse il cuore. Forse la mia preghiera era un po’ egoista» (Avvenire, 15 febbraio 1998).
Roberto Robustelli
Sarno (Salerno) frana e Roberto sta correndo verso casa, quando il fango l’imprigiona in un sottoscala. Ha 22 anni. Resta per tre giorni al buio, immerso nella melma, con le gambe imprigionate sotto una trave. Solo la testa è fuori dal fango. Lo sentono chiamare, quando il numero dei morti è già salito a 1O1. Lo tirano fuori e dice: «Mamma, dammi un bacio, mi sento un leone». Poi – in ospedale – fa questo racconto:
«Pregavo come mamma mi aveva detto. Mi facevo l’Eterno riposo solo per me. Ho resistito per tre giorni, immobilizzato dal fango, solo grazie alla fede in Dio e all’amore per i miei familiari e per Mariangela, la mia fidanzata. Ho udito la voce dei soccorritori e ho ringraziato Dio per il miracolo» (Avvenire, 10 maggio 1998)
Silvia Melis
Era l’11 novembre 1997, quando i rapitori liberarono Silvia, o quando Silvia si librò da sola: non sappiamo più quale sia la verità, ma il rapimento ci fu e ci fu – per 265 giorni – lo strazio di questa giovane mamma lontana dal suo bambino, che finalmente l’abbraccia e le dice: «Mamma, ora sono più grande, ho cinque anni!» E lei così parla ai giornalisti:
«Ho avuto momenti di paura, ma proprio allora mi ha aiutato la fede. Non devo smettere di lottare, non devo lasciarmi andare, mi sono ripetuta per mesi. Avevo un pensiero fisso: devo tornare per Luca. Lo ripetevo sempre (…) Che farò domani? Starò tutto il giorno con Luca e, se sarà possibile, farò dire una messa di ringraziamento. L’ho promesso, eppoi tutta la Chiesa mi ha molto aiutato» (Corriere della Sera, 12 novembre 1997)
Gigliola Antonioli
Se il rapito è un bambino appena nato e si chiama Daniele e la mamma si chiama Gigliola (39 anni, di Bergamo), questa sarà la preghiera lungo le quattordici ore della scomparsa del piccolo (nato di sera, rapito di prima mattina, ritrovato per strada la sera successiva):
«Ho pregato tutta notte, Dio sa quello che voglio.
«Spero che qualcuno si faccia vivo, si penta di averlo fatto, ce lo riporti.
«Dio, soltanto Dio può aiutarci, venirci incontro. Per questo non smetto di pregare» (Avvenire, 27 aprile 1996).