Dice che assistendo i malati ha «imparato a essere felice» e a me è bastata questa affermazione per decidere di intervistarlo. Si chiama Antonio Thellung, è romano e al momento dell’intervista aveva 67 anni, tre figli e sette nipoti. Da quindici anni si occupava di assistenza a malati terminali. Aveva raccontato in un libro – intitolato «Accanto al malato… sino alla fine. Esperienze e testimonianze» (Editrice Ancora, 140 pagine, 18.000 lire) – 23 storie del suo «coinvolgimento con sorella morte». Di quel libro io avevo scritto la prefazione senza aver mai incontrato Antonio, ma avendo avuto il suo testo per posta.
Quanti malati hai assistito in quindici anni?
«Un’ottantina. E una quarantina ne ho visti morire. E’ sempre un’esperienza straordinaria. Ogni volta ho la sensazione di essere di fronte al mistero. E’ come se lo toccassi ed è come se la Grazia ti toccasse».
Perchè dici che l’assistenza ti ha insegnato la felicità?
«Preparando il libro, mi sono chiesto che cosa avessi imparato. Tante cose, tendevo a pensare: la pazienza, la capacità di valorizzare gli aspetti positivi che non mancano mai nelle situazioni drammatiche, la prontezza a far tesoro di ogni momento. Ma questo elenco non mi soddisfaceva, finchè mi è apparsa chiara quella risposta sulla felicità».
E’ un’affermazione paradossale. I lettori la capiranno?
«Qualcuno resterà incredulo, ma che posso farci se questa è la realtà? Penso che l’affermazione possa essere capita, purchè non si confonda felicità con spensieratezza. Comunque per me non è una teoria ma un’esperienza. L’esperienza di alcuni mediocri gesti eccezionali, che chiunque può compiere».
Prova a raccontarla con poche parole…
«L’assistenza ai malati è stata una svolta per la mia vita. Prima pensavo che, per godere qualche gioia, fosse necessario allontanare il pensiero della sofferenza. Il mio atteggiamento è cambiato, quando ho sperimentato quali stupefacenti risultati si ottengono portando un sorriso nel dramma: è lì che quel paradossale stato d’animo che chiamo felicità mi ha conquistato. E ho capito che felicità e angoscia non sono in alternativa tra loro, ma possono convivere».
Qual è stata la prima occasione di questa scoperta?
«La morte di mio fratello Eugenio, per tumore al cervello. Nella fase finale della lunga malattia, d’accordo con i miei familiari, lo prendemmo in casa nostra. Fu così che ritrovai un fratello con il quale avevo sempre avuto buoni rapporti, ma un po’ distaccati. Ci guardavamo negli occhi, e penso che anche lui provasse un’emozione simile alla mia. Ma fu a esperienza compiuta che mi accorsi, con sorpresa, di aver scoperto qualcosa di nuovo: che i tre mesi dedicati a Eugenio erano stati tra i più belli della mia vita. Per quanto gli avessi dato, avevo certamente ricevuto molto di più».
La scoperta della felicità fu tutta lì, o ebbe sviluppi?
«Il tocco finale di questa scoperta è venuto con un’altra esperienza di assistenza, uno dei primissimi casi dopo la morte di mio fratello. Si chiamava Renzo e se ne andò in tre giorni: ci avevano chiamato all’ultimo momento. L’assistei per due giorni e il terzo fu mia moglie Giulia che si offerse per la notte. L’accompagnai eppoi tornai a casa e mi addormentai, finchè poco dopo le due squillò il telefono. Come d’accordo, ritornai sul posto per aiutarla a lavarlo e a vestirlo. Poi, dopo averlo salutato, tornammo a casa e alle cinque eravamo di nuovo nel nostro letto. Fu a quel punto che Giulia mi disse: “Stanotte ci siamo alzati per pregare insieme”. Pregare non era mai stato il mio forte, ma da allora mi resi conto che quel tipo di preghiera mi era congeniale. Ciò che più mi colpì fu la parola “insieme”».
Dopo questi inizi, come si è sviluppata la tua assistenza ai malati?
«Fui tra i promotori dell’Associazione Ryder Italia, nata a Roma quattordici anni fa dalla britannica Sue Ryder Foundation, che offre assistenza a tutto campo (dalle prestazioni mediche al sostegno psicologico) ai malati terminali di cancro. Il gruppo romano oggi conta quattro medici, sette infermieri e una trentina di volontari. Ma non tutte le storie che racconto in questo volume sono legate all’associazione».
L’associazione è laica, tu invece hai motivazioni cristiane: qual è la storia della tua fede?
«Sono nato cattolico, ma poi ho avuto un allontanamento e infine una conversione. Ho perso la fede quando l’immagine di Dio che mi seguiva dall’infanzia arrivò ad apparirmi peggiore di me. Quel Dio vendicativo, che la fa pagare al peccatore, non l’accettavo più. Tornai alla fede quando intuii qualcosa della paternità divina. La conversione maturò attraverso una rilettura dei Vangeli. Fu decisivo intendere che il Signore trasforma il male in bene e non separa il male dal bene».
C’è una parola del Vangelo che ti ha segnato di più?
«La regola d’oro che Gesù detta nel discorso della montagna: Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro (Matteo 7, 12). E’ significativo che dopo tanti secoli di cristianesimo, nella cultura comune questa regola continui a essere citata secondo la formulazione in negativo che aveva nell’Antico Testamento: Non fare agli altri ciò che non vorresti sia fatto a te!»
Fin qui l’intervista. Di Antonio Thellung dopo quel primo contatto ho continuato a interessarmi negli anni. Egli è un amico che continuamente ravviva il calore del rapporto. Puoi vedere la mia prefazione al suo libretto – citata nel cappello a questa intervista – nella pagina del mio blog PREFAZIONI E CAPITOLI elencata sotto la mia foto. Sempre nel blog ho segnalato in due occasioni altri suoi testi: vedi post del 28 maggio 2007 e del 24 settembre 2009. Per completare la conoscenza di Antonio visita il suo vivacissimo sito.
[Testo pubblicato dall’Eco di San Gabriele nell’ottobre del 1999, aggiornato nel novembre 2009]