Paola Salviato muore di tumore a 28 anni, nel gennaio del 1999, lasciando in un file del computer una lettera «alle persone che amo» in cui racconta il suo modo di affrontare la morte: o meglio, la lotta che ha condotto per continuare a vivere – «con umiltà» – l’«avventura della vita» come dono, senza «sprecarla», facendo anzi tesoro di «ogni istante», imparando a «gustarlo con gioia», cercando dentro di sè «il volto di Dio». Era di Spinea (Venezia), ultima di cinque figli e si era laureata in restauro a Venezia, facendo la tesi dall’ospedale, tra una chemio e l’altra. Diceva che la malattia era per lei «un’occasione di crescita e conoscenza di me stessa». E ha scritto che la vicinanza alla morte l’aveva portata come non mai «vicino alla vita». I genitori hanno accettato di farmi conoscere la lettera consegnata al computer e gli appunti presi dalla mamma lungo i mesi della malattia.
Paola ama l’arte e in particolare le annunciazioni. Nel tirocinio di restauratrice ha appreso a dipingere e sogna di realizzare un’icona. Così racconta la sua ricerca del volto di Cristo, in una confidenza alla mamma che ha la data del 28 dicembre 1998: «Desidero fare un’icona, ma non sono pronta. Prima devo imprimere in me il volto di Dio. Per disegnare nell’icona il mio volto, il mio amore, il Dio che vive in me».
Paola morirà tre settimane dopo ed è bello questo accostamento alla morte vissuto nella ricerca del volto di Dio. E’ bello sentirla nominare insieme – come a raggiungerli con la stessa carezza – il proprio volto e quello di Dio, il proprio amore e l’amore di Dio: «il Dio che vive in me».
Cercava ancora il volto dell’amato, eppure di strada ne aveva compiuta, lungo gli anni della malattia, arrivando a vincere l’inquietudine e a vivere «in pace» le ultime giornate: «Sembra impossibile anche a me vivere in pace, pensare solo a oggi», dice alla mamma nella stessa data.
Si era impegnata a fondo per vivere in pienezza l’ultimo Natale della sua vita: «Se sapessi, mamma, quanto ho pregato per riuscire a essere forte per godere l’affetto di tutta la famiglia in questi giorni di Natale. Non ho nessun rimpianto della mia vita, nessuna esigenza, sto bene, sono serena e sono amata. Ho un solo dispiacere: non poter diventare mamma! Desideravo tanto un bambino» (27 dicembre 1998).
Eppure erano settimane difficili: un autotrapianto aveva dato un esito insufficiente: «Da due mesi non ho più paura di morire. Adesso sono serena, anche se nel dolore straziante non ragiono. Godo dell’amore che te e papà mi date, vi voglio tanto bene e mi dispiace che soffriate per me. Che dolore vedervi soffrire! Vivo alla giornata, non penso al domani. Se questa sperimentazione non serve a me, sono comunque contenta di sottopormi a essa perchè potrebbe essere utile ad altre persone» (dicembre 1998).
Per riuscire a vivere alla giornata ha rinunciato a sogni e progetti, ha persino lasciato il suo ragazzo, per non causargli troppa sofferenza. In camera sterile così si confida: «Vedi mamma, in questo periodo sto assaporando, gustando con gioia, ogni istante della vita. Al momento godo di questo» (ottobre 1998).
Ed ecco la sfida che ha condotto con se stessa, perchè la malattia non gli impedisse di vivere nella gratitudine: «La vita è un dono che mi è stato dato. Devo viverla come tale, donando un sorriso a chi soffre, anche se il cuore piange. Desidero non sprecare questo dono e vivere la vita con umiltà. Guardo agli altri nei loro pregi, vorrei valorizzarli come sono. La mia malattia diventa un’occasione di crescita e conoscenza di me stessa. La nostra fede ci impone di credere in Dio, tralasciando certi conformismi: credere nel Dio che scopri nel più profondo e intimo di te» (giugno 1998).
Si ribella al pietismo di chi la commisera per la sua disgrazia, senza aiutarla – fosse anche solo con uno sguardo sereno – nella battaglia a vivere la vita come dono: «Soffro, ho tanti dolori, ho paura, ma anche tanta pace e serenità. Sento vivo il valore di un sorriso, di una tenerezza, anche solo di uno sguardo sereno e non arrabbiato. Mi fa andare in bestia la pietà, ovvero il falso pietismo; come se il tumore fosse solo una grande disgrazia e la persona che lo vive una persona rara».
A questo stesso sentimento è ispirata la lettera che lascia nel computer: «Nella malattia l’avventura della vita viene inevitabilmente intensificata dal dolore, dalla compassione che si prova per se stessi e per i propri compagni di viaggio. Ma non crediate che la malattia sia solo sofferenza, come non lo è la vita. E’ un mistero circondato da tanti piccoli miracoli di comprensione, solidarietà, gioia di poter vedere con altri occhi e sentire con altri sensi».
Vicina a morire, Paola si sente quanto mai «vicina alla vita» e con questo sentimento giustifica la decisione di scrivere alle persone che ama, presa con la consapevolezza che le sue parole potrebbero essere intese «come un atto di violenza»: «Dolorosa non è la morte in sè, ma la sottocultura da cui siamo dominati e che ci rende inutili, che ci toglie dignità e bellezza, quando in realtà nessuno è così vicino alla vita quanto lo siamo noi, che stiamo morendo. Per questo ho deciso di non rinnegarmi e di firmarmi con serenità».
[Testo pubblicato dall’Eco di San Gabriele nel fascicolo di luglio-agosto 1999]