Cristiani in tempo di Covid. Storie di vita

SESTRI LEVANTE

Casa di spiritualità Madonnina del Grappa – Piazza Enrico Mauri 1
Martedì 17 agosto 2021 – ore 21.15

Dall’inizio della pandemia, nel marzo del 2020, vengo raccogliendo nel mio blog (www.luigiaccattoli.it) storie di vita che chiamo “Fatti di Vangelo in pandemia”, con il richiamo al concetto di “fatti di Vangelo”, cioè storie cristiane di vite convertite, ai quali ho già dedicato alcuni volumi pubblicati dalla SEI, dalla Locusta, dalla San Paolo e dalla EDB. L’intento è di raccogliere storie esemplari vissute da italiani nelle stagioni della pandemia, puntando a quelle che risultino portatrici di un segno di speranza che aiuti a guardare avanti.

Ero a metà dell’inchiesta quando è capitato anche a me di passare per il Covid 19, tra il novembre e il dicembre 2020, in forma per fortuna non grave ma non priva della corsa notturna al pronto soccorso e di una settimana di notti insonni.

Tenuto sveglio dall’ossigeno e dal cortisone, ho maturato l’idea che avrei dovuto orientare l’indagine su tre filoni principali: l’ascolto dei morenti, la memoria dei guariti, il racconto dei soccorritori. Ho chiesto aiuto al collega giornalista Ciro Fusco che ha condiviso questo orientamento e di comune accordo, lungo quei tre filoni, abbiamo completato la raccolta che il 4 agosto abbiamo consegnato all’Editrice ViTrend, di Trento, e che dovrebbe apparire in autunno con il titolo Fatti di Vangelo in pandemia. Settantadue storie italiane di morte e risurrezione nella stagione del Covid-19.

Per prime vengono dunque le storie dei morti: nella nostra indagine ci siamo ristretti ai morenti che hanno potuto lasciare un messaggio, un testamento, un saluto; e ne abbiamo trovate una decina. I morti italiani sono a oggi oltre 128 mila, ma l’isolamento nei reparti Covid, la mancanza di fiato, la tracheotomia spiegano l’afasia dei morenti.

Nella nostra ricerca abbiamo incontrato vari casi di morenti che hanno affidato un ultimo messaggio al personale ospedaliero: e spesso si tratta di una parola d’affetto per il marito o per la moglie. Esemplare è la ventura di Oscar Vrtovec di Novara: guarisce e racconta che in un momento duro del ricovero, convinto che non rivedrà più la moglie e i figli, prende la mano di un’infermiera e le sussurra: “Dite loro che gli ho sempre voluto bene”. Le poche ultime proteste d’amore che sono riuscite a varcare la clausura dei reparti intensivi danno voce alla folla di morenti che ci è sembrata allontanarsi muta.

Narro ora una sola storia di un morente che ha potuto lasciare un messaggio compiuto: si tratta di un prete di Pesato, Orlando Bartolucci: si ammala nel marzo 2020, è dichiarato guarito in aprile, ha una ricaduta e muore in maggio.

“Speriamo che il disagio e la sofferenza, che come un aratro è passato nel cuore, possa fare spazio a nuovi semi di necessaria profezia” mi ha detto questo prete in un’intervista che ho potuto fargli in quei giorni che erano parsi di guarigione.

“Semi di bene” dirà il papa nella “Fratelli tutti”: semi che “Dio continua a seminare nell’umanità” anche nel mezzo della pandemia (paragrafo 54). “Semi di necessaria profezia” diceva don Orlando che aveva provato ciò che l’avrebbe portato alla morte: cioè semi che potrebbero risultare fecondi in vista di un nuovo domani.

In un messaggio del 1° aprile ai parrocchiani questo prete si era chiesto se il tempo della pandemia fosse “unicamente una grande maledizione” o se in essa non vi fosse una qualche “benedizione” e così aveva concluso: “Questa è forse la più grande Quaresima che noi abbiamo celebrato. Che questo tempo sia una grande Grazia? Non dipende solo dal Signore, ma anche dallo spirito con cui ciascuno di noi si abbandona, come Gesù, nelle braccia del Padre”.

Molte delle storie di guariti che abbiamo raccolto parlano di questo affidamento al Signore, che hanno potuto compiere quando si sono trovati a faccia a faccia con la morte. E credo di aver vissuto anch’io qualcosa di simile, nelle notti fatte insonni dall’ossigeno.

“Ho camminato due o tre giorni lucidamente con la morte” dice uno dei guariti e confessa di aver misteriosamente sperimentato, in tale cammino, la “presenza” confortatrice del Signore.

“Ciò che più mi ha aiutato in quella fase è stato mettermi completamente nelle mani del Signore” confida un altro.

“C’è stato un momento in cui ero davvero convinto che sarei morto. Pregavo per essere liberato da questa prova però con il riconoscimento che la volontà di Dio è un bene per te”, racconta un terzo.

Sull’abbandono nella fede – a imitazione del Cristo morente: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Luca 23, 46) – crediamo d’esserci imbattuti in un testo esemplare: L’Atto di affidamento a Maria scritto da Piero Rattin per l’arcivescovo di Trento, che l’ha pronunciato in cattedrale il 3 aprile 2020 (storia 28). Don Piero – che ha vinto il Covid ed è un biblista – conclude l’affidamento comunitario con il richiamo alla necessità di una “conversione coraggiosa” che abbiamo già udito da altri nostri testimoni che sono passati per la terra dei morenti: “Ottienici di valutare con sapienza di fede il drammatico evento che abbiamo sperimentato; rendici capaci di comprenderlo quale ‘segno dei tempi’ e di coglierne le provocazioni ad attuare scelte concrete di conversione coraggiosa e coerenti cambiamenti di mentalità e di condotta”.

Dopo l’ascolto dei morti e l’interrogazione dei guariti che hanno visto in faccia la morte, abbiamo cercato per terzo il racconto di chi si è messo a disposizione rischiando di infettarsi e di morire. C’è chi l’ha fatto riuscendo a farsi ricoverare insieme alla moglie prigioniera dell’Alzheimer, e chi per accompagnare lo zio Down.

Tra quanti il rischio l’hanno corso con piena scienza della posta in gioco – e per soccorrere degli estranei – ci sono i medici e gli infermieri volontari, o che avevano lasciato queste professioni e sono tornati a svolgerle per “dare una mano”.

Abbiamo raccolto una decina di storie con questo segno. Ora busso a esse e provo a scuoterle, per vedere che frutto lasceranno cadere.

Elisa Da Re è un giovane medico che all’arrivo della pandemia si offre volontaria come Covid-doctor: “Quante volte ho sognato di lavorare in Africa e ora che l’Africa arrivava qui non potevo esitare”.

Guarda all’Africa anche Marta Ribul, infermiera volontaria che compie i 27 anni in corsia: “In questo momento avrei dovuto essere da poco a Nairobi, per un nuovo anno di Servizio Civile in una baraccopoli”.

Il blocco dei voli che dirotta il volontariato di Marta dirotta anche Giuseppe Morstabilini, prete ambrosiano in partenza per lo Zambia, che torna a fare l’infermiere in terra lombarda e scopre che “in realtà prete e infermiere non sono in contrasto”. Sentimento condiviso da un altro prete tornato infermiere, Alessio Strapazzon di Belluno: «In questo momento, per me, amare il prossimo significa rientrare in corsia».

Oltre a questi due preti diocesani, tra chi è tornato a fare il medico o l’infermiere nella stagione più ardua la nostra inchiesta elenca due suore Alcantarine e un frate francescano, ma anche un vignaiolo, due ristoratori, uno scrittore famoso (Andrea Vitali), una donna passata alla politica (Monica Bettoni).

Michela Fanti, 22 anni, infermiera volontaria in un reparto Covid: “Il dono di umanità che ho ricevuto dai ricoverati mi ha aperto il cuore, mi sono sentita onorata”.

Anche io nel mio ricovero ho incontrato una giovane infermiera che mi ha trattato come fossi suo padre: fu a metà di una di quelle notti che passavo per intero senza dormire, quella in cui ero più rintronato. Ho suonato agli infermieri perché avevo freddo e ho chiesto una seconda coperta. Una ragazza giovanissima, di nome Stefania, della quale vedevo solo gli occhi, con il nome tracciato sulla visiera di plastica, ha sistemato la coperta, mi ha messo le mani guantate sulle guance e mi ha dato un bacio dalla sua maschera scafandrata. Dono grande.

Anziani assistiti e giovani assistenti hanno realizzato in questa difficile stagione una familiarità che aiuta a sperare per un miglioramento nell’intesa tra le generazioni, che forse non era mai apparsa tanto difficile come nel nostro tempo. Questa inaspettata familiarità le nostre storie non la documentano solo negli ambienti ospedalieri ma anche nelle mense per i senzatetto e nell’aiuto agli anziani soli.

Il rischio corso dai medici in generale e da quelli di famiglia in specie è documentato dalle statistiche: a fine luglio 2021 i morti per Covid tra i medici erano circa 360. Alla stessa data erano oltre 270 i preti diocesani portati via dalla pandemia. Aggiungendo ai diocesani i religiosi – per i quali non ci sono stime attendibili – è verosimile che i sacerdoti uccisi dal Covid raggiungano un numero paragonabile, o superiore, a quello dei medici.

Una viva percezione della “missione” del medico in pandemia viene espressa da Papa Francesco il 3 maggio 2020, domenica del Buon Pastore, quando accosta tra loro i preti e i medici che danno la vita per le persone affidate alla loro cura, e invita a considerare congiuntamente “l’esempio di questi pastori preti e pastori medici”. In questa stagione straordinaria di bene e di male, le persone che hanno dato la vita per fedeltà alla propria missione forse bastano a pareggiare ogni altro conto.

Termino con Antonio Napolioni vescovo di Cremona passato per la malattia: “Chi si prende cura dei fratelli è Cristo che si prende cura di Cristo. Questo è il vero nome di tutto ciò che accade”. Crediamo siano parole da tenere.

Le scelte che portano al soccorso dei fratelli io le chiamo “fatti di Vangelo” pur sapendo che chi le ha compiute spesso non l’ha fatto in risposta alla vocazione cristiana ma alla vocazione d’uomo. C’è un insegnamento nel fatto che in profondo le due vocazioni s’incontrino.