Raccogliendo storie di pandemia – nel blog a oggi ne ho stivate 90 – ho provato a mettere la lente sulle parole attestanti la “pietà”, secondo l’accezione forte del termine quale fu proposta da don Giuseppe De Luca in Introduzione alla storia della pietà (1962). La lente mi ha dato ingrandimenti di conferma delle mie aspettative ma anche di sorpresa ed è a questi secondi che ora darò un’occhiata. – E’ l’attacco di un mio testo pubblicato dalla rivista Il Regno. Nei commenti alcuni capoversi.
Un’occhiata a questa pandemia nella storia della pietà
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Sentimento della grazia. Mio articolo 1. Mi aspettavo la frequente menzione della preghiera nella solitudine, spesso abbinata alla percezione della paura. Anche mi aspettavo la gratitudine per l’accompagnamento di intercessione amicale e comunitario. Persino l’ardua via dell’affidamento era nella mia aspettativa e più avanti ne dirò qualcosa.
Non mi aspettavo invece un così diffuso sentimento della “grazia”, sia nell’accezione popolare della grazia ricevuta, sia in quella biblica della salvezza che viene per grazia. Ho trovato persino attestazioni della malattia come momento di grazia.
Ancora meno mi aspettavo l’avvertenza della presenza di Dio nella prova, ovvero di una risposta – si direbbe – dell’invocato all’invocazione che gli veniva rivolta.
Avvertimento della sua presenza. Mio articolo 2. Di sentimento della presenza del Signore hanno parlato diversi tra gli ospiti delle terapie intensive dei quali mi sono occupato. Il prete ambrosiano Luigi Sala: “La morte l’ho avvertita vicina, vicinissima e in quell’istante ho avuto la consapevolezza della presenza di Dio come di un Padre che era lì a sostenermi e di una moltitudine di persone che mi aiutavano con la preghiera”. Il fatebenefratelli Serafino Acernozzi: “Mentre le persone attorno a me morivano, il tutto era avvolto dal senso della presenza di Dio: non posso attribuire a me stesso la capacità di questo sereno affidamento alla divina misericordia. Attribuisco, piuttosto, questo dono alle tante persone che hanno pregato per me”.
Nella fornace del Covid. Mio articolo 3. La confortante presenza di Dio nella prova – sempre invocata nei secoli – è spesso presente con nuovo protagonismo nella storia recente della pietà. La novità è attestata da varie falde di teologia della Croce alle quali sempre si richiamava Giuseppe Dossetti ma anche dagli scritti di Elisabetta di Digione, la carmelitana fatta beata da Giovanni Paolo II nel 1984: “Dappertutto non c’è che lui, lo si vive, lo si respira” scriveva Elisabetta già colpita dalla malattia di Addison che la portò alla morte a 26 anni nel 1906. Una novità – questa percezione della presenza del Cristo sofferente ai sofferenti – che ha avuto divulgazione con il ripensamento del cristianesimo “dopo Auschwitz”, con la pedagogia focolarina del Gesù abbandonato, con la Salvifici doloris di papa Wojtyla (1984) e – oggi – con il richiamo di papa Bergoglio a tacere davanti alla sofferenza e a “guardare Gesù crocifisso”. Si direbbe che nella fornace del Covid diversi nostri fratelli abbiano sperimentato qualcosa della vertiginosa e inaudita presenza di Dio all’umanità tribolata proposta da tanti maestri.
https://gpcentofanti.altervista.org/il-magnificat-le-nozze-di-cana-e-questo-nostro-tempo/