Papa Francesco ha fatto pubblicare oggi il decreto riguardante “il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, Fedele Laico; nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì (Italia) e ucciso, in odio alla Fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento (Italia), il 21 settembre 1990”. E’ giorno di festa per me, che alla figura di Livatino “martire della giustizia” avevo dedicato un capitolo del primo dei miei volumi intitolati “Cerco fatti di Vangelo” (Sei 1995). Nei commenti il rimando a quel testo di cui riporto le parti rese oggi ancora più attuali dalla decisione del Papa.
Mio ritratto di Livatino che Francesco proclama “martire”
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Testo del 1995. L’intero mio testo del 1995 può essere letto qui:
http://www.luigiaccattoli.it/blog/cerco-fatti-di-vangelo/nuovi-martiri/c-martiri-della-giustizia/rosario-livatino-%e2%80%9cil-rendere-giustizia-e-dedizione-di-se-a-dio%e2%80%9d/
Martiri della giustizia. Rosario Livatino è forse la più bella figura cristiana tra le vittime della mafia siciliana: magistrato ad Agrigento, viene ucciso mentre torna alla sua casa di Canicattì, la sera del 21 settembre 1990. Ha 38 anni, è senza scorta e senza macchina blindata: non le ha mai volute. Si sapeva che era un magistrato coraggioso e si scopre che era un cristiano serio. Sarà in riferimento a lui che Giovanni Paolo II, il 9 maggio 1993, dopo aver incontrato ad Agrigento i suoi genitori, dirà degli uccisi dalla mafia: “Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede”.
Nel vallone accanto alla superstrada, dov’era precipitato agonizzante per sfuggire ai killers, fu trovata accanto a lui la sua agenda di lavoro. Su di essa, nella prima pagina spiccava la sigla “STD”: “Sub tutela Dei”. Quella sigla si trova in tutte le sue agende e ricorda – ha spiegato il professore Giovanni Tranchina, che di Livatino fu docente universitario – “le invocazioni con le quali, in età medievale, si impetrava la divina assistenza nell’adempimento di certi uffici pubblici”.
Assiduo all’Eucarestia. Nella messa di commiato, il suo vescovo lo descrisse come “impegnato nell’Azione cattolica, assiduo all’Eucarestia domenicale, discepolo fedele del Crocifisso”. E’ attestato il suo impegno affinché‚ nell’aula delle udienze, in tribunale, ci fosse un crocifisso. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale, andava a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe. Ma tutto questo nella massima discrezione. Alla messa domenicale andava con i genitori. Lo stesso parroco della chiesa di San Giuseppe ignorava chi fosse “quel giovane profondamente raccolto” che vedeva da anni. Pochi in città sapevano che era un giudice di prima linea e quasi nessuno che era un cristiano militante.
Più puntuale su Livatino come figura cristiana è la testimonianza del parroco Pietro Li Calzi. Decisiva è la documentazione che ci viene dagli appunti lasciati nelle agende. Splendida è l’attestazione delle due conferenze inedite e stampate dopo la morte: “Il ruolo del giudice in una società che cambia” (tenuta nel 1984 al Rotary Club di Canicattì) e “Fede e diritto” (sempre a Canicattì, nell’aprile del 1986, a un gruppo culturale cristiano).
Il parroco lo descrive come “fulgido esempio di cristiano maturo” e racconta della sua frequenza anonima alla catechesi – lungo il 1988 – per ricevere la cresima che non aveva avuto da ragazzo. Riteneva che il sacramento della Confermazione gli fosse necessario nella sfida alle cosche che aveva avviato.
Il Signore mi protegga. Nell’agenda del 1978 c’è questa invocazione sulla sua professione di magistrato, in data 18 luglio, che suona come consacrazione di una vita: “Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.
Nelle agende dal 1984 al 1986 ci sono accenni drammatici a una crisi di coscienza, dovuta – pare – a minacce mafiose e condizionamenti ambientali della stessa matrice: “Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni” (19 giugno 1984); “Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?” (31 dicembre 1984). Fino a una soluzione di fede e di accettazione della prospettiva del martirio: “Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori” (27 maggio 1986).
Dalla conferenza sul ruolo del giudice basterà riportare queste parole, che acquistano grandezza e fuoco dal suo sangue: “Il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire indipendente, e tanto può esserlo ed apparire ove egli stesso lo voglia, e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”. Morirà appunto per la decisione di portare avanti un’inchiesta di mafia sottraendosi a ogni condizionamento dall’ambiente mafioso in cui era costretto a muoversi e che radicalmente rifiutava.
Rendere giustizia è dedizione di sé a Dio. Dalla conferenza su fede e diritto riporto un passo di straordinaria profondità – degna di giuristi credenti alla Capogrossi, o alla Jemolo – che descrive il rendere giustizia come atto di preghiera:
“Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Quella conferenza termina con una pagina che afferma la coincidenza finale, per il cristiano, di giustizia e carità:
“I non cristiani credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità”.
Fossimo nei primi secoli della Chiesa, Rosario Livatino sarebbe già venerato come martire e dottore.
Così scrivevo nel 1995. E oggi che Livatino come martire è proposto dalla Chiesa, festeggio e lodo: Rosario testimone di Cristo, Papa Wojtyla che per primo lo disse martire e Papa Francesco che martire l’ha proclamato.
La ricerca del vero, la storia, i poteri…
https://gpcentofanti.altervista.org/maria-e-la-storia-della-salvezza/
Caro Luigi.
Alla notizia di questa Beatificazione, ho esultato come un bambino che riceveva un immenso dono.
Ringrazio insieme a te il Signore e papa Francesco per questo dono.
Don Ciotti :
““La sua beatificazione, atto che salda Cielo e Terra”, è “pungolo per tutti noi a vivere con maggiore coerenza e radicalità l’impegno per il bene comune”.
https://www.agensir.it/quotidiano/2020/12/22/rosario-livatino-don-ciotti-libera-sua-beatificazione-pungolo-per-noi-a-vivere-con-maggiore-coerenza-e-radicalita-limpegno-per-il-bene-comune/
Che bellissima notizia, Luigi !
Condivido l’entusiasmo dell’amico Fabrizio.
Roberto Caligaris
L’uccisore e il testimone. Nel processo per il riconoscimento del martirio di Rosario Livatino sono entrate deposizioni singolari, due delle quali segnalo nei commenti che seguono: la prima fu resa da uno dei quattro ventenni che uccisero il magistrato per conto di una stidda agrigentina; l’altra venne dal supertestimone la cui presenza casuale sul luogo dell’uccisione permise l’arresto dei quattro. Nel commento che segue metto parti di un’intervista recente a uno degli uccisori che in carcere è divenuto un devoto dell’ucciso; a seguire – nel secondo dei commenti che seguono – metto un’intervista recentissima al supertestimone.
L’ho ucciso e ora lo prego. Gaetano Puzzangaro, soprannominato “‘a musca”, la mosca, un vecchio nomignolo di famiglia, nella sua Palma Di Montechiaro. “Da quasi 20 anni sto facendo un percorso spirituale. Ho testimoniato per la causa di beatificazione di Livatino perché era doveroso. Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto! E lo prego ogni domenica a Messa. Il mio più grande rimorso? Non aver avuto il coraggio di chiedere scusa ai suoi genitori […]. Io non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino. Ho saputo di lui poco prima della sua uccisione. Ci era stato detto che il dottor Livatino aiutava altre persone contro di noi, che veniva contro i giovani. E noi ci abbiamo creduto […]. Non scarico la responsabilità sugli altri: a decidere sono stato io, è colpa mia […]. Io non sapevo cosa fosse Cosa Nostra. La svolta era avvenuta nell’89 perché ci avevano detto che volevano ucciderci per delle rapine fatte in banca. Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che ho fatto al giudice Livatino […]. Il discorso di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento nel 1993 (con il monito “Lo dico ai responsabili, convertitevi”, ndr), mi ha fatto molto riflettere, ho capito che dovevo uscire da quella vita. Ho visto le immagini del Papa che incontrava i genitori di Livatino e ho ancora quell’immagine impressa nella mente. I loro sguardi. Queste due persone non hanno mai espresso parole di condanna, ma solo di perdono e di vicinanza ai nostri genitori […]. Ho deciso di testimoniare per la sua causa di beatificazione dopo le parole di Papa Francesco pronunciate a Cassano allo Jonio e dopo il mio percorso religioso, iniziato tra il 1999 e il 2000.
Intervista di Fabio Marchese Ragona pubblicata dal settimanale “Panorama” del 21.12.2017.
http://stanzevaticane.tgcom24.it/2017/12/21/ho-ucciso-il-giudice-livatino-oggi-lo-prego-e-non-mi-do-pace/
Rifarei tutto. L’intervista al supertestimone Piero Nava – costretto da allora, cioè da tre decenni – a mutare identità e a vivere nascosto, è uno dei lavori giornalistici che sono stati premiati dall’Ucsi di Verona sabato 19 dicembre, nella stessa occasione nella quale a me è stato dato il premio “Giornalismo e società”.
L’intervista è firmata da Emanuele Roncalli ed è stata pubblicata da “L’Eco di Bergamo” lo scorso 11 settembre con questa presentazione:
«Io, supertestimone del delitto Livatino sono morto assieme al giovane giudice». A 30 anni dall’omicidio del magistrato in Sicilia parla l’uomo che portò gli inquirenti a individuare i killer. «Rifarei tutto. Me l’ha insegnato l’educazione ricevuta. In quella vicenda non avevo due scelte, ma una sola. Non puoi alzarti il mattino dopo e leggere sul giornale un fatto così e tu che c’eri non hai detto niente. Non sapevo nemmeno che fosse un giudice la persona assassinata».
https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/cultura-e-spettacoli/io-supertestimone-del-delitto-livatinosono-morto-assieme-al-giovane-giudice_1370487_11/
voceblu.blogspot.com. L’umanità viene da Babele e torna a Babele, che era il luogo della confusione delle lingue, da dove all’origine – secondo il mito della Genesi – tutti i popoli si sono differenziati e distanziati. Questo ritorno segna l’umanità di oggi. Può essere un ritorno di salvezza, di un’umanità che ha capito il comune destino della famiglia umana, e torna a riscoprire sentimenti di fraternità, “Fratelli tutti” è il titolo dell’ultima enciclica di Francesco; o può essere un ritorno ancora più selvaggio della dispersione antica. L’uso che si farà del vaccino – se davvero gratuito e per tutti, o se sperequato e speculativo – sarà la prova, o almeno l’indizio, di come torneremo a Babele e di come questa tribolazione possa farci migliori o peggiori.
E’ un brano di UNO SGUARDO LIMPIDO PER VEDERE IL BENE. INTERVISTA AL GIORNALISTA VATICANISTA LUIGI ACCATTOLI che si può leggere qui:
https://voceblu.blogspot.com/2020/12/uno-sguardo-limpido-per-vedere-il-bene.html
il libro in cui Petro Nava racconta la sua storia di testimone:
https://rizzoli.rizzolilibri.it/libri/io-sono-nessuno/
Buon Natale
Cristina Vicquery