Terzo giorno di cura a domicilio. Ho la prescrizione delle medicine da prendere e delle misurazioni da effettuare, prescrizione dettagliata nella “relazione clinica” che dall’ospedale hanno inviato al “medico curante”, cioè al mio medico di famiglia. Ho la bombola dell’ossigeno per eventuali crisi respiratorie, ma per fortuna fino a oggi non si sono profilate. I parametri sono in ordine, la ginnastica respiratoria pare mi venga bene. Approfitto di questa giornata calma per narrare – nel primo commento – un gesto d’affetto che mi è venuto una notte, quand’ero nel dramma, da un’infermiera giovanissima.
Un bacio dall’infermiera nella notte più fredda
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Affetto dagli infermieri. Avevo trovato questo elemento, dell’umanità amorevole del personale ospedaliero verso i malati privi del contatto con le famiglie, in molte della sessanta storie che stavo raccontando nel blog quando mi è arrivata la polmonite. Ma anche di persona l’ho poi visto quell’affetto nella settimana più dura della mia ospedalizzazione, quando non riuscivo a parlare né a bere e vaneggiavo al flusso dell’ossigeno che m’investiva giorno e notte. A metà di una di quelle notti, che passavo per intero senza dormire, ho suonato agli infermieri perché avevo freddo e ho chiesto una seconda coperta. Una ragazza giovanissima, di nome Stefania, della quale vedevo solo gli occhi, con il nome tracciato sulla visiera di plastica, ha sistemato la coperta, mi ha messo le mani guantate sulle guance e mi ha dato un bacio dalla sua maschera scafandrata. Dono grande.
Un angelo nella corsia.
Caro Luigi, caro collega e compagno delle nostre peregrinazioni sul web, ti copio di seguito l’editoriale che ho scritto per il quotidiano Trentino (su cui ogni settimana ho un appuntamento fisso coi lettori) pubblicato lo scorso 23 dicembre. Come vedrai, il tuo racconto dell’infermiera-angelo mi ha fornito lo spunto per una riflessione per questo Natale. Approfitto per farti gli auguri più cari, anche per una tua completa guarigione.
Ecco il testo dell’editoriale. Spero di farti cosa gradita.
Un’infermiera si china sull’anziano affetto da Covid. Gli sistema la coperta, poi fa una cosa inaspettata: “Con il nome tracciato sulla visiera di plastica, mi ha messo le mani guantate sulle guance e mi ha dato un bacio dalla sua maschera scafandrata”. Lo racconta nel suo blog il vaticanista del Corriere, Luigi Accattoli. E aggiunge: “Dono grande”. Il Natale? E’ questa roba qua.
Da mesi Accattoli raccoglie nel suo blog le testimonianze di chi ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza del Coronavirus. Dentro ci sono anche i racconti di alcuni trentini: Renzo Delpero da Vermiglio, Giacomo Radoani, don Piero Rattin. Racconti ormai divenuti usuali. La vita (stra)ordinaria al tempo del Covid. Nelle ultime settimane però si è ritrovato lui, Accattoli, dentro un letto d’ospedale, e l’antologia di testimonianze si è fatta struggente diario personale.
Ho ritrovato qualcosa di molto simile nella testimonianza di Paolo Zambaldi, medico del Santa Chiara di Trento, sul settimanale diocesano Vita Trentina. Zambaldi racconta molto bene l’abnegazione, lo spirito di servizio e di “carità” di tutto il personale ospedaliero in questo drammatico periodo.
Pensando a loro – a chi può ancora raccontarla, e l’ha scampata – spero ardentemente che a nessuna “anima bella” nostrana venga in mente di berciare “Ci hanno rubato il Natale!”, solo perchè gli tocca d’andare alla Messa della vigilia con qualche ora di anticipo o di seguire la celebrazione sul web. Ecco, no.
Oscar Romero diceva che “dove la Chiesa sta con le persone, con le loro gioie e i loro dolori: lì è presente Cristo”. Non necessariamente dietro a un altare. Anzi.
Il papa stesso ci ha invitati nei giorni scorsi per questo Natale non a volere di più, ma a chiederci cosa possiamo fare per gli altri. Come? Penso per esempio a una sorta di Veglia di Natale “diffusa”. Sia pure per una sera, quella del 24, adottiamo a distanza un malato, un sofferente, una persona sola. Inviamogli almeno un saluto di conforto, attraverso una telefonata o un “messaggino”.
Per chi crede, sarà la più bella (e più autentica) Messa natalizia. Un’unica grande celebrazione comunitaria, dove l’Eucaristia è un farsi dono l’uno con l’altro. Una Messa fuori dalle chiese, spogliata di tutto, anche dei segni del “potere” che inevitabilmente sono presenti in tutte la manifestazioni umane, liturgie sacre comprese.
Un anno fa qualche commentatore aveva notato come, all’apertura del sinodo dell’Amazzonia, papa Francesco avesse camminato in mezzo agli altri nella processione dalla basilica di San Pietro all’aula del sinodo. Non davanti, ma assieme. Non sono gesti di poco conto. E’ Natale anche in questi episodi, sempre, non solo il 25 e non solo per chi crede: quando cioè il rovesciamento di una posizione di potere si fa dono per gli altri. Esattamente come è stato per quel Bambino nella stalla. Questo accade ogni giorno dentro le corsie degli ospedali, nelle Rsa, nelle case delle persone sole.
Si riferiva a questo l’Arcivescovo Tisi quando, sei mesi fa, nella sua lettera alla comunità trentina auspicava di trasformare le comunità cristiane in laboratori di dialogo e di ricerca di senso. Intimando alla fine: “apriamolo davvero questo ospedale da campo che è la Chiesa”. Auguri.
Grazie Danilo, d’avermi letto e di aver riportato. Auguri anche a te. Luigi