Enrico Barzaghi è un giovane milanese che muore di Aids a trent’anni il 15 gennaio 1990 avendo avuto il battesimo qualche mese prima. In ospedale legge i Vangeli e si fa cristiano. Ecco la sua conversione nel racconto di una nipotina.
«Quando ho scoperto che Enrico era sieropositivo ho provato una sensazione di dolore. Nonostante ciò ho continuato a volergli bene e a prendermi cura di lui come se fosse mio fratello. Quando andavo a casa della nonna alle quattro, lo andavamo sempre a trovare in ospedale. Quell’ospedale era triste, ma soltanto sentirmi vicino a lui mi rallegrava l’animo.
«A Natale lui aveva tanta fame e ha divorato tutto ciò che gli capitava a tiro perchè voleva vivere, e mangiando pensava di poter riacquistare forza e salute. Alla Vigilia eravamo tutti riuniti a casa della nonna Ulla: quando è venuto il momento dei regali, la maggior parte era per Chicco. Li apriva con ansia e quando li scartava diceva sempre: “Che bello!”
«Vennero a intervistarlo quelli della Rai e così finì in televisione. Lo zio Chicco pare che sia l’unico in Italia che non si vergogna di essere malato e non capisco perchè gli altri si debbano vergognare.
«Qualche mese prima di morire, Chicco si è fatto battezzare. La gente durante la cerimonia piangeva, soprattutto la mia mamma, e la mia sorellina guardò fissa per tutta la cerimonia gli occhi della mamma che sembravano due rubinetti aperti.
«Mia sorella e io abbiamo fatto da damigelle e abbiamo portato un mazzo di fiori all’altare. Davanti all’altare c’erano tre preti. Sulla balconata sopra la porta c’erano gli infermieri che cantavano in coro. Chicco aveva tanta bontà che conquistò il cuore di tutto l’ospedale.
«Quando lo vado a trovare al cimitero, vedo tutti quei fiori che gli porta la gente che gli voleva bene. Anche se ora è morto, lui è sempre vicino a noi, cioè con la sua anima è con noi e in più Chicco è col suo cuore nel nostro cuore.
«Noi continuiamo a volergli bene perchè lo zio mi ha detto che lui ci guarda da una finestrella del cielo e che ci continuerà ad amare e a proteggere».
La nipotina si chiama Francesca ed era in terza elementare quando raccontò questa storia più grande di lei e di noi tutti. Ho preso il suo testo dal libro dedicato al figlio da Ursula Barzaghi: Senza vergogna. Una storia di coraggio contro l’Aids, «e/o» editore, Roma 1996. E’ un libro che può aiutare chi combatte contro l’Aids e contro ogni malattia. La coraggiosa mamma di Enrico lo ha scritto per continuare la battaglia del figlio contro il pregiudizio che emargina i malati di Aids e ancor più quelli che – come Enrico – diventano sieropositivi nel comportamento omosessuale.
Ma quella di Enrico è anche una bella storia cristiana: di come cioè la chiamata a entrare nel Regno possa raggiungere l’uomo del Duemila, anche il più lontano da ogni educazione religiosa, tanto da non essere neanche battezzato. Il mistero poi della sua conversione lo lasceremo velato, come ce lo consegna il racconto ammirato della nipotina.
Nel volume Ursula Barzaghi dice che la conversione del figlio più che un atto di fede è stata un atto d’amore e in un’intervista al settimanale Vita (1.6.1996) precisa: «Non è stato un fatto sentimentale nè una questione di paura. Questa conversione viene interpretata sempre in modo diverso, ho sentito persino opinioni del tipo ‘lo hanno convinto’. Invece è stato un gesto d’amore, ma un gesto che va spiegato, che non nasce lì in quel momento, questo bisogno d’amore era nato in Enrico molti anni prima che si manifestasse la malattia».
Quando mi occupai la prima volta della vicenda si Enrico – nella primavera del 1998 – chiamai Ursula Barzaghi al telefono e le chiesi che cosa intendesse per atto d’amore: «Credo di aver capito che voleva lasciare un’eredità alla società, ai conoscenti e a tutti, come a dire: ‘Badate che senza la fede non ce la possiamo fare’. Lui avrebbe potuto portare avanti in segreto la sua conversione e invece ha preso la decisione di renderla pubblica: è qui che vedo un gesto d’amore».
Chiedo a Ursula di precisare il ruolo della suora (suor Celeste) che Enrico conosce in ospedale e che l’accompagna nell’avvicinamento alla fede: «Non ha assolutamente forzato la decisione, non ha mai avuto un atteggiamento missionario. Con il suo amore gratuito e con la testimonianza della sua profonda fede ha certamente esercitato un’attrazione, forse nel senso di accelerare la decisione di Enrico di rendere pubblica la conversione».
Nel sito Cultura Gay si può leggere un profilo di Enrico – scritto da Massimo Consoli nel 2004 – che non accenna minimamente alla sua conversione. Negli ambienti del movimento per i diritti dei gay Enrico è considerato un “simbolo” della battaglia per “uscire allo scoperto” e “umanizzare la malattia”.
[Aggiornamento ottobre 2009 di un testo pubblicato dalla rivista Eco di San Gabriele nel giugno del 1998]