Rocco Chinnici, giudice a Palermo, viene ucciso dalla mafia a 58 anni, il 28 luglio 1983. Insieme a lui, l’autobomba che esplode sotto la sua abitazione, in via Pipitone Federico, uccide anche due uomini della scorta e il portiere dello stabile. La sposa Tina e i figli Caterina, Elvira e Giovanni negli anni “maturano” – come racconta in questa intervista del 2000 Caterina – “la scelta del perdono”.
“Al perdono siamo arrivati nel tempo, non nell’immediatezza, quando prevalse la difficoltà ad accettare quella morte così crudele. La rabbia che essa determinò non ci consentiva di perdonare. Ci siamo arrivati attraverso un percorso di sofferenza, ma ci siamo arrivati già da tempo e questa rimane – da allora – la decisione mia e di tutta la famiglia.
“L’incidenza della fede è stata fondamentale per il nostro percorso, che ha avuto due momenti. Il primo è quello dell’accettazione della morte di mio padre, fino a non vederla più come un fatto crudele e ingiustificato, ma come qualcosa che lui stesso aveva accettato. Mio padre sentiva il suo lavoro come una missione e nel tempo si era reso conto di correre dei rischi. Li aveva accettati per portare avanti la sua missione. La riflessione sul fatto che egli per primo aveva accettato il rischio ha consentito anche a noi di accettare il suo sacrificio. Poi è venuto il momento della fede – quella fede che egli ci aveva trasmesso – che ci ha consentito di fare la scelta del perdono.
“Sono convinta che mio padre avrebbe condiviso la nostra scelta. Penso anzi che egli per primo ci avrebbe indirizzato a essa, perché era un uomo di profonda religiosità e i valori che professiamo ci vengono anche dai suoi insegnamenti.
“Abbiamo tenuto riservata la scelta del perdono perché è una decisione intima, personale. Come del resto abbiamo sempre considerato privata e solo nostra tutta la vicenda della morte di mio padre. E forse anche questo atteggiamento ci viene dal suo modo di essere, che era molto riservato. Il perdono è dunque un fatto solo nostro, ma che ci ha dato serenità per affrontare tutto quello che è venuto dopo la sua morte. E a me consente di svolgere il mio lavoro di magistrato con serenità e obbiettività”.
Così parlava Caterina Chinnici in un’intervista per il Tg1 raccolta da Vincenzo Morgante e parzialmente trasmessa il 12 marzo 2000, “Giornata del perdono”. Ascoltai alcune delle sue parole al termine della diretta per la celebrazione penitenziale che Giovanni Paolo II presiedette quel giorno in San Pietro e mi procurai il nastro completo della conversazione. La trascrissi e chiesi a Caterina l’autorizzazione a pubblicarla. E’ un documento prezioso. Non c’è niente di scontato, né di compiaciuto nelle sue parole: c’è la fatica e la serenità della via cristiana percorsa da tutta una famiglia in un riserbo durato anni.
Caterina Chinnici è magistrato come il papà (ma nel 2009 entra come assessore della famiglia nella giunta regionale Lombardo) e afferma che la scelta del perdono l’ha aiutata nella conduzione del suo lavoro. Questa veduta incarnata del “perdono” cristiano è istruttiva: a esso non si arriva generalmente sull’onda dell’emozione (le parole dette a un microfono, il giorno della tragedia, possono rivelarsi fragili), ma una volta che ci siamo arrivati esso influenza il resto della vita.
Caterina in questa intervista parla a nome della famiglia. Già la mamma Chinnici, Tina, aveva accennato a questa coralità familiare in un’intervista di quindici anni prima a un altro collega, Gigi Moncalvo (Il coraggio di sfidare la mafia, Paoline 1986, pp. 67-102): “Mio marito era molto religioso. La fede ha aiutato anche noi a superare una vicenda come quella che si è abbattuta sulla nostra famiglia”.
Sull’atteggiamento di Rocco Chinnici davanti alla morte, abbiamo queste parole, dette a un giornalista poco prima dell’attentato che l’uccise: “Sa perché non possono nulla contro di me? La cosa peggiore che può accadere è di essere ucciso, e io non ho paura della morte. La mia vita l’ho fatta, ho lavorato onestamente e a questo punto lascerei tutti sistemati. Se mi devono ammazzare vorrei che lo facessero dopo la laurea di Elvira e di Giovanni” (ivi, p, 85). Non vide la laurea dei due: al momento della morte aveva potuto festeggiare soltanto quella di Caterina, la figlia maggiore.
[Aggiornamento ottobre 2009 da Eco di San Gabriele del settembre 2000]