Relazione al seminario internazionale
“Valori e prospettive per l’Europa di domani”
promosso dal Circolo Verso l’Europa
Chiusi della Verna (AR) – Sabato 10 ottobre – ore 10,00
Che cosa ha da offrire al mondo l’Europa di oggi? E’ ancora una fonte di speranza questa nostra Europa che si va unificando ma che sembra farlo con sorprendente lentezza e incontrando sempre nuove contraddizioni? Che sembra incerta sulla propria missione storica e persino sulla propria identità culturale? Che invecchia con il veloce innalzamento dell’età media dei suoi abitanti e deve scommettere sull’immigrazione per sostenere il proprio sistema produttivo? Immigrazione che teme di non poter controllare e che un giorno potrebbe condurla dove mai avrebbe voluto arrivare?
Non mancano voci allarmate sul destino storico del continente. E tra queste non si può trascurare quella autorevolissima di Benedetto XVI, che è stato definito “l’ultimo papa europeo” [Bernard Lecomte, Benoit XVI. Le dernier pape européen, Perrin 2006; traduzione italiana Benedetto XVI. L’ultimo papa europeo, San Paolo 2007].
«L’Europa sembra incamminata su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia»: così parla Benedetto XVI con riferimento alla crisi demografica del continente, incontrando il 24 marzo 2007 i vescovi europei riuniti in Vaticano in occasione dei festeggiamenti per i 50 anni dei Trattati di Roma. Il papa riconosce «il lungo cammino» compiuto in mezzo secolo, che «ha condotto alla riconciliazione dei due polmoni, l’Oriente e l’Occidente», ma più ampia è la sua attenzione alle minacce che incombono, prima fra tutte quella dell’identità che si va perdendo e che il Cristianesimo aveva «contribuito a forgiare», acquisendo un ruolo «non soltanto storico ma fondativo nei confronti dell’Europa». «Questa singolare forma di apostasia da se stessa, prima ancora che da Dio – si domanda papa Benedetto – non induce forse l’Europa a dubitare della sua stessa identità?»
Due grandi domande – dunque – propone il papa: il futuro che viene a mancare a causa delle culle vuote e il dubbio sulla propria identità, una volta smarrito – o messo in forse – il riferimento al cristianesimo. Non proveremo a rispondere a queste due domande del nostro papa, ma le terremo in conto nel nostro laico ragionare. Guarderemo anche alle preoccupazioni di questo che potrebbe essere – si sente dire – l’ultimo “papa europeo”.
No, io non credo che sarà l’ultimo. Non credo che l’Europa non abbia più nulla da dire al mondo. Non credo all’invecchiamento biologico delle civiltà.
Credo che anche le culle torneranno a riempirsi nel nostro continente, che è comunque tra le aree più popolose del pianeta. Come mostra il caso della Francia, la natalità risale con politiche familiari efficaci e durature.
Credo che il domani del pianeta sia destinato a essere il crogiuolo di un incontro, o incrocio, o meticciato senza precedenti di ogni cultura e civiltà e credo che in Europa viva una componente della famiglia umana esperta e capace di incontro, forse la più capace – oggi – tra tutte. Il domani dell’umanità sarà la patria – io credo – di chi meglio saprà andare all’incontro del diverso restando se stesso. E questo l’Europa ha fatto per gran tempo e fa tuttora meglio di altri.
Che sia nel nostro cromosoma culturale il gene dell’incontro non sarà difficile a segnalare. Erodoto che narra di ogni popolo che sia sotto il sole e Strabone che descrive ogni terra e Alessandro Magno che arriva all’India nella sua folle corsa a calcare ogni suolo potrebbero bastare per l’apporto dei greci in questa gara a guardare più ampiamente e andare al largo. Il genio di Roma in tale direzione ci è ancora più familiare e lo riscopriamo quando usciamo dai confini attuali dell’Europa – magari per una vacanza – e ne troviamo il segno vivo in Turchia, nelle emozionanti rovine di Efeso, o in Siria, o in Tunisia. L’Impero romano, le sue strade e il suo latino. Il Sacro Romano Impero che giunge fino al Congresso di Vienna. La seconda e la terza Roma, Costantinopoli e Mosca, che aprono e svolgono imperi abbracciando i millenni e i continenti. Senza quelle imprese non ci sarebbe oggi l’avventura dell’Unione Europea.
Lo slancio missionario del cristianesimo, terzo fattore dell’eredità europea, dice poi un ampliamento ancora più grande, a ogni popolo, a ogni uomo, fino ai confini della terra. E Marco Polo che percorre da mercante e da cristiano metà del pianeta con inesausta curiosità del diverso, e Francesco – siamo a La Verna, una delle sue patrie – che va senza armi e senza scorta all’incontro del Sultano, e Matteo Ricci che si fa cinese.
E le Repubbliche marinare. E Colombo e la Spagna che – volendo “buscar el Levante por el Poniente – vanno nelle Americhe, seguiti dal Portogallo, dalla Francia, dall’Olanda e dall’Inghilterra. E ancora il Portogallo che va in India e in Indonesia, circumnavigando l’Africa. E gli inglesi che vanno in Australia e in Nuova Zelanda.
Il Mediterraneo infine dove da sempre l’Europa ha convissuto con l’Islam: ecco la scuola, l’ombelico si direbbe, di quel genio dell’incontro che ci caratterizza e che ci ha fatti diversi – anche in anni recenti e tutt’oggi – rispetto agli Stati Uniti d’America, nostri cugini, nel guardare ai popoli musulmani e nel rispondere alla sfida della convivenza che essi ci pongono.
Poi Napoleone va in Egitto e in Siria sul finire del Settecento – nel 1798 – e sul suo esempio per un secolo e mezzo l’intera Europa andrà per tutto il mondo nella smisurata e violenta avventura coloniale: la Russia occuperà le attuali Repubbliche asiatiche; la Germania, l’Italia, la Francia, l’Olanda, il Belgio, la Gran Bretagna, la Spagna e il Portogallo occuperanno ognuna una zona dell’Asia e dell’Africa.
Dominio e rapina, ma anche incontro. Fino alle due guerre mondiali, quando l’Europa convocherà il mondo al suo massacro… Indelebili macchie e colpe e sfruttamento. Ma anche planetario sommovimento e incrocio.
Creazione degli stati nazionali, loro diffusione nel mondo, apogeo e follia degli stessi stati nazionali che incendiano il mondo con i loro conflitti e oggi, come in un’inaspettata palingenesi quella stessa Europa che avvia un processo di unione con il quale sta mostrando al mondo la via per il superamento degli Stati nazionali.
Dunque l’Europa esperta e capace di incontro per quanto riguarda il passato, ma anche creatrice di nuove possibilità di incontro per il futuro, con la stessa costruzione della propria unità. E prima ancora del fatto dell’unità, è il modo e il metodo di quella costruzione che rappresentano un insegnamento epocale offerto a tutti sul pianeta: una costruzione di grande portata e rilievo, ciclopica si direbbe e inedita ovunque e sempre, di tanti popoli e lingue e tradizioni e stati che liberamente si avvicinano e si uniscono.
Ecco come potremmo riassumere questo esempio o ammaestramento: l’Europa ha esportato nel mondo – nei secoli XIX e XX – la forma dello Stato nazionale e ora sta mostrando al mondo il superamento di quella forma, verso una modalità creativa di convivenza e collaborazione oltre i confini statuali.
Una modalità ardua perché comporta una progressiva rinuncia alla sovranità e all’autosufficienza nazionale per costruire insieme un’entità sovranazionale. E’ grande impresa perché è naturale la tendenza all’accrescimento della sovranità e dell’indipendenza, non alla loro rinuncia. In questo processo unitivo viene dunque sperimentata una modalità costruens-destruens [che costruisce riducendo] profondamente umanistica perché pacifica, democratica e consensuale in ogni suo passaggio: moneta unica, abolizione delle frontiere, una comune politica agricola.
La portata storica e inedita del fatto è presto detta. Dal 1° gennaio del 2007 gli Stati membro dell’Unione Europea sono 27, con una popolazione complessiva che sfiora il mezzo miliardo (492 milioni secondo la stima più recente) e un prodotto interno lordo globale (stimato per il 2008 in 12.504 miliardi di euro) che ne fa la prima economia al mondo. Tenendoci al solo dato della popolazione, l’Unione Europea è superata solo da Cina e India, mentre oltrepassa di 200 milioni gli USA e di 360 milioni la Russia.
“Ma è un processo lento – si obietta – e che rischia di incepparsi a ogni momento”. Valgano a sua difesa due considerazioni. La prima riguarda il fatto che tutto questo che diciamo si è compiuto in soli 50 anni: 50 anni compivano i Trattati di Roma nel 2007 e 40 anni compie nel 2009 il Circolo “Verso l’Europa” che ci ha chiamati qui! Non è un tempo lungo, se si considera le radici profonde degli Stati dell’Europa. Cinquant’anni è la misura breve di una vita umana: se l’intero processo dell’unificazione dovesse abbracciarne due, di vite d’uomo, sarebbe un tempo accettabile.
La seconda considerazione riguarda le cause della lentezza. Appena una settimana addietro – il 2 ottobre – abbiamo visto il “sì” plebiscitario dell’Irlanda al trattato di Lisbona. Un precedente referendum, nel giugno del 2008, aveva bocciato quel trattato. Ora sono 25 su 27 i paesi che l’hanno ratificato. L’adesione irlandese trascina con sé quella polacca e dunque si sta andando al completamento delle adesioni: c’è questa fatica, nella costruzione dell’Europa, ma essa procede. La fatica dice che si tratta di una grande impresa, non che essa non possa riuscire.
Il futuro del cristianesimo europeo, infine. Ero il 30 settembre ad ascoltare il papa all’udienza generale che riferiva del suo viaggio del 26-28 settembre nella Repubblica Ceca: “È stato un vero pellegrinaggio e, al tempo stesso, una missione nel cuore dell’Europa: pellegrinaggio, perché la Boemia e la Moravia sono da oltre un millennio terra di fede e di santità; missione, perché l’Europa ha bisogno di ritrovare in Dio e nel suo amore il fondamento saldo della speranza”. Ecco il punto. Il nostro tema ci interroga sulla speranza dell’Europa e il Papa afferma che l’umanità europea non potrà ritrovare il “fondamento” della speranza se non lo cerca in Dio.
Abbiamo alle spalle l’aspra contesa sul preambolo della Carta costituzionale europea. L’arcivescovo Jean-Louis Tauran nel maggio del 2003 protestava – a nome del papa Giovanni Paolo II – per la mancata citazione del nome cristiano nella bozza di Costituzione europea, affermando che quella omissione rivelava “una prepotente tentazione di riscrivere la storia”. Aveva ragione.
Ma Valéry Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione costituente, reagiva affermando che la menzione del cristianesimo era stata mantenuta implicita – essa era allusa dall’evocazione dello “slancio spirituale che ha percorso l’Europa ed è ancora presente nel suo patrimonio” – perché “altrimenti avremmo dovuto menzionare anche
le altre tradizioni religiose presenti nel continente, dal giudaismo all’Islam”. E io trovo che anche lui aveva ragione! Ma oso immaginare che ambedue gli impegni – di nominare il cristianesimo e di non misconoscere le altre fedi – andavano onorati, nel rispetto della realtà storica e attuale.
La presenza forzosa e conflittiva delle tre fedi è nella storia dell’Europa, mentre la loro compresenza accettata e pacificata si pone oggi come condizione per il suo futuro. Dal microcosmo dell’aula scolastica al macrocosmo dell’Unione europea, la via della compresenza e della reciproca accettazione appare ormai ineludibile.
Dobbiamo dire che questa via non è stata neanche tentata nelle fasi di battito in vista della Carta costituzionale europea perché perdura tra noi un riflesso – spesso inconsapevole – della secolare lotta per il dominio tra le componenti dell’umanesimo europeo. Abbiamo così assistito al muro contro muro tra chi voleva il richiamo alle “correnti filosofiche dei Lumi” – che erano infatti citate nel preambolo della bozza – e non si menzionassero i retaggi religiosi, e chi invece rivendicava il ruolo del cristianesimo come superiore e fondante rispetto a ogni altra ispirazione.
Chi scommette sulla compresenza come fondamento di buona convivenza, non avrà difficoltà ad accettare la menzione dei Lumi accanto a quella delle fedi. Ma c’è da attendersi la permanenza di una componente laicista che preferisce l’azzeramento di ogni referenza valoriale, purchè scompaia il cristianesimo dalla “tavola” della convivenza europea. Così come non è esaurita la fazione cristianista che non si riconosce in nulla che non porti il solo nome cristiano. E’ da sperare che sul lungo periodo anche gli orti conclusi degli opposti esclusivismi siano penetrati dall’opera di purificazione della memoria, attiva da tempo nel campo della cultura e avviata ultimamente in quello delle fedi.
L’Europa come laboratorio delle diversità riconciliate potrà un giorno tornare ospitale anche per il nome cristiano, quando non l’avvertirà più come portatore di una minaccia di dominio. Le Chiese nel continente si sono indebolite, non sono più legate ai poteri statuali e hanno accettato la convivenza plurale ma sono ancora percepite da molti – specie negli ambienti della leadership economica, politica e mediatica – come miranti al dominio delle coscienze e all’imposizione per legge dei propri convincimenti.
Quando finalmente sarà caduto questo timore, il cristianesimo potrà tornare a essere amato in Europa e sarà riabbracciato da una “minoranza creativa” – concetto usato da papa Benedetto nella conversazione con i giornalisti sull’aereo che il 26 settembre lo portava da Roma a Praga – che lo saprà riproporre in una ritrovata freschezza alle nuove generazioni non più segnate da alcun timore nei suoi confronti.
Quale sarà, in definitiva il contributo cristiano di cui l’Europa del futuro non potrà fare a meno per essere se stessa e per fornire un segno di speranza agli abitanti della città mondiale? Mi piace dirlo – qui a La Verna, il “divotissimo monte” come lo chiamano le Considerazioni sulle stimmate – con un riferimento all’umanesimo francescano, cioè a Francesco come “uomo nuovo donato dal Cielo al mondo”: così lo chiama Bonaventura nella Legenda Maior (XII, 8). Egli insegnò a vedere un fratello in ogni uomo e una sorella nella natura: questo forse e infine sarà l’apporto cristiano al futuro dell’Europa.