Sono nato mezzo secolo fa nella campagna tra Recanati e Osimo: a Loreto a piedi – per la festa della “Venuta” – ci andavo da bambino, quando le strade erano bianche. E ricordo l’ultima volta che ci andammo con il birroccio tirato dalle mucche. Poi il mondo si riempi di moto e di auto, che fecero dimenticare il pellegrinaggio a piedi. Che oggi però viene riscoperto, perchè ciò che resta nel cuore degli uomini può essere che torni – un giorno – nella loro vita. E qualcuno aspetta che tornino anche i focaracci, ad accompagnare la preghiera dei semplici.
Quell’ultimo viaggio con il birroccio è uno dei miei primi ricordi: avrò avuto tre o quattro anni, sarà stato il 1946 o 1947.
Si partiva che era ancora buio e questa era già un’avventura. Si saliva tutti insieme, come per andare al mulino o alla festa di Sant’Antonio. Gli uomini seduti sulle sponde, le donne e i bambini dentro, su una cassetta dell’uva rovesciata con sopra una coperta da cavallo. Se io avevo tre anni, c’erano un fratello di cinque e una sorella di due e altri quattro fratelli più grandi, ma non così grandi da andare da soli.
E si stava a messa, anzi a due messe, e si andava dalla zia suora – c’è ancora, suor Maria Eufrasia, del Rifugio San Giuseppe – le portavamo le uova, lei ci dava la colazione e un pezzo di cioccolato. Una bambolina alle femminucce, un coltellino ai maschietti. Una volta ci regalò a tutti insieme una boccia di vetro con dentro la Madonnina, di quelle che fanno la neve a rovesciarla.
Durante le messe, il birroccio veniva parcheggiato nella zona di Porta Marina, davanti al convento della zia: toccava al babbo e al fratello più grande darsi il cambio per non lasciare le mucche e non perdere la messa. Alle bancarelle non si comprava niente, al massimo una carruba per ogni figlio. Ho visto che le vendono ancora, ma chissà se ci sono più bambini poveri davvero, capaci poi di sognarle – quelle carrube – per un anno o una vita. Le ho ritrovate ultimamente sul Gargano, erano buone e le ho portate ai miei figli, ma non le hanno volute.
Salutata la suora, si ripartiva. Sono appena otto chilometri, ma il passo era lento.
Ad andare a Loreto con il birroccio, i contadini più vicini che non avevano la cavalla credo che abbiano continuato fin verso il 1950. Quando ne parlo con amici e parenti, quel mio ricordo scatena meraviglie. Ma io ho particolari cosi vivi, di quelle sbirrocciate, che tutti si arrendono al mio ricordo. Ed è stato un regalo trovare in questo volume – tra le mille curiosità raccontate da Claudio Principi: lo immagino come un lieto cantastorie – un così vivo ricordo della “sterza de Mengré” e delle sue affollate partenze per Loreto.
Dopo il ‘50 la scena cambia. E a Loreto mi è capitato di andarci anche col “càmio de Storà”: il birroccio era un mezzo di trasporto familiare, il camion invece era collettivo come la sterza. Si mettevano insieme più famiglie per pagare il camionista. Che alzava la cerata a coprire dalla polvere e metteva tutti a sedere su panche di legno lungo le sponde. Ma noi piccoli si sguazzava al centro del cassone.
Poco dopo, sarà stato il 1955, babbo comprò un Galletto, che era una moto Guzzi 125. In casa eravamo otto, il Galletto faceva due viaggi e i ragazzi andavano in bicicletta. Ce n’erano due di biciclette in casa e bisognava andare a due a due. Le biciclette le lasciavamo da Frescarelli, un contadino amico che aveva casa sotto Montereale, dalla parte del Musone. Perché da li era comodo prendere uno stradello che faceva da scorciatoia. Ma soprattutto perché si temeva che a Loreto la bicicletta potesse essere rubata. In quei tempi beati pare che nessuno temesse il furto tranne che quando passavano gli zingari e quando si andava a Loreto. In questo volume l’ottimo Principi racconta e spiega questa come ogni altra leggenda.
Infine l’automobile dello zio Rico: una gloriosa Balilla, l’unica del parentado e della contrada, sulla quale – non so come – salivamo tutti.
Ho raccontato il rapido passaggio dal pellegrinaggio familiare a piedi a quello in automobile. Restava intatta, in ogni fase di quel passaggio, l’idea che comunque a Loreto bisognava andarci tutti, con qualsiasi mezzo e magari un pochi a piedi e un pochi col Galletto. Poi là ci si ricongiungeva e si andava tutti insieme dalla zia e i genitori controllavano se i ragazzi si erano confessati.
Ma il ricordo più forte legato al pellegrinaggio a Loreto è un altro: non di me pellegrino, ma di un vagabondo e barbone che pellegrinava tutta la vita sulla direttrice Roma-Loreto, via Assisi. Anche lui appartiene ai miei primi ricordi. Lo vedo vecchio e storto, con una sacca dove metteva i tozzi di pane e ogni cosa. Portava un bastone.
Luigi aveva sempre i pidocchi. A casa nostra ci dormiva: d’inverno nella stalla, d’estate sull’aia, su una forcata di paglia. I nostri genitori erano più contenti se passava d’estate: lo ospitavano volentieri, ma non lo lasciavano entrare in casa e della stalla erano gelosi quanto della casa.
I sacchi con cui si copriva poi li sotterravamo per spurgarli dai pidocchi, la paglia la bruciavamo. Noi piccoli non dovevamo stargli attorno, ma potevamo portargli da mangiare.
È stato forse l’ultimo pellegrino mendicante della storia marchigiana. Almeno credevo così, ma una volta che l’ho detto in pubblico mi hanno corretto, assicurando che ce ne sono anche oggi. Cioè ce n’è ancora uno: si vede che in quest’epoca straniera i vagabondi di Dio possono continuare a esistere, ma solo uno per volta.
Lo ricordo bene questo Luigi, come figura, con la barba e i sandali legati con lo spago. Ma non ricordo nessuna sua parola, ricordo solo che parlava, parlava. Forse non parlava con noi. Passava due volte all’anno.
L’ultima volta che passò, io avrò avuto dieci anni, sarà stato il 1953: stava per arrivare la televisione e lui si affrettò ad andarsene. Con questo vagabondo finiva un’epoca.
La figura di Luigi mi è servita per capire, al liceo, la “Madonna dei pellegrini” del Caravaggio, detta appunto “Nostra Signora di Loreto”, che si trova nella chiesa di Sant’Agostino a Roma: i due pellegrini cenciosi, con i piedi consumati e sporchi in primo piano e quella Madonna che è una donna vera con il bambino in braccio, sulla porta di casa.
Era già molto che Luigi mi aiutasse a capire i pellegrini del Caravaggio. Ma non era tutto. Mi ha aiutato più tardi – e mi spinge ancora oggi – a tentare di capire qualcosa dello straordinario figlio e santo d’Europa – venuto dalla Francia – che è Benedetto Giuseppe Labre, che girava i santuari del continente e passava sempre a Loreto e da Loreto andava a Roma: se riusciremo a parlarne ai nostri figli, di questo “girovago e mendicante di Dio” (così lo chiamano le Litanie maggiori di Bose), vorrà dire che non tutto è perduto.
Giuseppe Benedetto – che fu un dono grande di Dio all’inizio dell’età moderna e la legò all’antica – muore a Roma a 35 anni, il giovedì santo del 1783. È sepolto nella chiesa della Madonna dei Monti e io – che abito da quelle parti – vado a trovarlo perché m’insegni qualcosa di quel suo camminare per l’Europa, senza vedere niente – pare che non amasse guardare in giro, gli studiosi lo definiscono “eremita pellegrino” – eppure tenendo unita l’anima del continente.
Aveva 25 anni quando venne la prima volta a Roma: e lo fece passando per Loreto. Girò tutti i santuari d’Europa, ma il primo e l’ultimo della sua ininterrotta peregrinazione fu Loreto. Il suo percorso preferito era Loreto-Assisi-Roma. E Assisi-Loreto furono anche le mète del pellegrinaggio di Giovanni XXIII alla vigilia del Vaticano Il. Oggi che si pensa di rilanciare Loreto come mèta di pellegrinaggio giovanile, si dovrebbe riscoprire questo itinerario.
I biografi raccontano che Benedetto Giuseppe amava lasciare le vie maestre e andare per campi e casolari. Egli a Loreto ci venne undici volte e mi sarebbe piaciuto venire a sapere che passava proprio dalle mie parti, venendo da Roma: per Settefinestre e Quattrobotti e il Gatto Nero e gli Archi. Se ci passava il barbone Luigi poteva darsi che ci fosse passato anche Benedetto Giuseppe.
E invece ho potuto leggere nell’Appendice C del libro di Principi che a Loreto l’eremita perveniva dopo aver percorso la Valle del Chienti ed aver pernottato addirittura sotto un porticato della piazza principale di Montolmo.
Bisognerà parlarne – di Benedetto Giuseppe e di tutti i pellegrini di ieri – ai ragazzi del “Pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto”, riproposto da Comunione e Liberazione. Ho fatto una volta con loro quella camminata nella notte, tra i campi di grano, ritrovando tanto di ciò che credevo perduto: le mie andate a Loreto col birroccio e il barbone Luigi e la memoria di Benedetto Giuseppe, cercatore folle della misericordia del Signore, che la cercò anche per le nostre strade.
I ragazzi del pellegrinaggio e ogni altro innamorato di Loreto potranno intanto leggere con frutto e con spasso questa “rammemorazione” e “pedestre ricognizione” del vecchio modo di pellegrinare a Loreto, che Claudio Principi ha messo insieme con amore e con studio. Principi l’ha vissuto il vecchio pellegrinaggio e l’ha indagato sotto ogni aspetto e qui lo racconta intero, procedendo lentamente, com’era lento il passo di chi andava a piedi e aveva tempo per raccontare. Ed è bene che sia venuto per tempo questo racconto, quando ci sono ancora tanti che a Loreto ci sono andati “un poco a piedi e un poco camminando”, ma quando già per i più il mondo di quei pellegrinaggi appare perduto e inimmaginabile.
Principi ci accompagna con il suo racconto dalla partenza per Loreto fino al ritorno a casa e trova modo di riferire le leggende, i proverbi, gli aneddoti, le superstizioni, le storielle birbone e tutto insomma di quei pellegrinaggi e di quanto riguarda il nostro Santuario. Forse le pagine più belle sono quelle sui focaracci che si facevano fuori delle cinque porte di Montolmo, patria dell’autore: e si sente che il Nostro era tra i banditelli che cercavano la legna e provavano a rubarla ai rioni avversari e tra quelli che facevano a gara il giro delle mura, durante il fuoco, per vedere quale dei cinque falò fosse destinato a vincere per durata.
Ci informa anche di prima mano sull’erba della Madonna, che si raccoglie il 15 agosto e che a casa mia raccoglievamo prima che sorgesse il sole. Ma che erba era ed è? Principi ha chiesto ad un contadino di raccoglierla “quest’anno” ed ha scomodato la Facoltà di Botanica e di Ecologia di Camerino per individuarla con sicurezza ed ecco che finalmente sappiamo che si tratta di due erbe: la Misopates orontium e la Stachys annua.
Mi hanno incantato – in questo libro – i focaracci e l’erba della Madonna, ma anche la storia della meravigliosa fanciulla chiamata “Madonna dell’Oliva” e del ciabattino Madunnì. Infine la “sterza de Mengré” parte da Montolmo, e veniamo informati sui pericoli del viaggio e il dazio che si pagava per entrare a Loreto con qualcosa da mangiare e finalmente siamo nella Santa Casa.
Ed ecco un nuovo incantamento su come la diceria della gente spiegava il colore nero della statua della Vergine: per il nero fumo delle candele; perché già era nera Lei, Maria in vita; a motivo che era poverella non aveva il camino e tutto il fumo del fuoco Le andava in faccia; perché veniva dalla Morea ed era quindi mora; perché si spaventò e divenne nera durante la traversata dell’Adriatico. Io sono per quest’ultima spiegazione e mi diverte l’immaginazione maliziosa dei popolani che l’inventarono, attribuendo quel nero misterioso all’imprudenza che ebbe la Madonna di affacciarsi dalla porticella della Santa Casa mentre volava sul mare.
Il volume – grazie anche alle appendici documentarie – ci dà molte altre informazioni. Ma queste più gustose volevo richiamare come invito a una lettura che è innanzitutto divertente.
Luigi Accattoli