Il ricordo del cardinale a novant’anni dalla nascita e a cinque dalla morte
Incontro dell’Unità pastorale di Nerviano
Salone della parrocchia Maria Madre – domenica 14 maggio 2017 – ore 16.00
«L’unico che non ci ha fatto la predica è stato il cardinale Martini» dissero due dei miei figli che nell’agosto del 1993 partecipavano alla Giornata mondiale della gioventù di Denver (Stati Uniti). Voi l’avete conosciuto bene questo padre nella fede che non faceva prediche, che era sobrio e profondo nella sua proposta pastorale, libero e rispettoso della libertà altrui. Una figura alta, la più alta che sia venuta dalla cattolicità italiana nell’ultimo ventennio del secolo scorso, germinata dalla tradizione ignaziana rifatta vitale dal Vaticano II. Una figura quasi papale, che ha esercitato vasta influenza nell’orbe cattolico, ben oltre Milano e l’Italia; e che ha continuato a essere per molti una guida per un decennio dopo che ebbe lasciato ai 75 anni la cattedra dei santi Ambrogio e Carlo.
Oggi, a cinque anni dalla sua partenza, rifulge ancora il grande dono che ci ha lasciato, da vescovo biblista, di richiamo all’essenzialità della vocazione cristiana nella nostra epoca. Ma risaltano anche i limiti della sua pedagogia umanistica e della sua azione di governo: forse troppo intellettuali e troppo prudenti, sia l’una sia l’altra. Limiti di un vescovo gesuita che oggi sono posti in evidenza dalla novità del papa gesuita, di cui è stato quasi il precursore. Ma su questo punto, del confronto con papa Bergoglio, tornerò alla fine della conversazione.
Scoprii Martini negli ultimi anni ’60 quand’era professore all’Istituto biblico e io ero un ragazzo della Fuci e l’ascoltavo a Roma e nelle settimane teologiche di Camaldoli. Come vaticanista della “Repubblica” e poi del “Corriere della Sera” gli ho fatto interviste e sono stato ospite alla sua mensa. Due volte (nel 1991 e nel 2000) mi ha chiamato a proporgli – davanti a un pubblico di giornalisti – alcune “provocazioni”: una volta sulle “cose ultime” e un’altra sul rapporto tra Chiesa e media.
Mai l’ho sentito dire “evitiamo questo argomento”, sia durante le interviste sia nella preparazione di quegli incontri pubblici.
Due volte mi convocò in arcivescovado – insieme a una ventina di ospiti della più diversa esperienza – per avere suggerimenti in vista di due delle lettere pastorali che hanno fatto epoca: quella sui media intitolata Il lembo del mantello (1991) e quella sulla “fine dei tempi” intitolata Sto alla porta e busso (1992). Chiamava quegli incontri “brainstorming”, tempeste di cervelli e chiedeva che ognuno degli ospiti dicesse la sua in libertà.
In occasione del secondo di questi appuntamenti ebbi con lui un colloquio privato durante il quale accennò – con serenità – alla critica che riceveva riguardo al presunto suo sbilanciamento sulla Parola di Dio a danno del governo dell’arcidiocesi: “Con nove dita io voglio perseguire l’annuncio del Vangelo e con uno tutto il resto”.
Nessuno tra i cardinali, lungo gli ultimi decenni, ha parlato con altrettanta schiettezza dell’insufficienza delle risposte tradizionali alla fuga dei giovani dalla pratica religiosa, alla crisi del clero, alla nuova cultura sessuale e omosessuale, alle possibilità biomediche che si fanno strada ogni giorno. Ricordo una “lettera ai sinodali” dell’arcidiocesi di Milano del maggio 1994, che riconosceva i “molti doni” venuti dal Sinodo ambrosiano ma affermava che “un po’ più di vento dello Spirito” non avrebbe “fatto male”. In genere i vescovi trattengono il gregge, Martini invece l’esortava “a novità coraggiose” e a godere in pienezza della “libertà del Vangelo”.
Quella libertà provocava polemiche simili a quelle che oggi provoca la libertà del papa gesuita. Ma egli mai a essa rinunciò e anzi l’accentuò fino a tenderla totale nell’ultima intervista: “Io consiglio al papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali”; “La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni” (Corriere della Sera del 1° settembre 2012). Forse avvertiva, alla fine della vita, l’insufficienza di quanto aveva denunciato e operato.
Per rispondere alla richiesta così impegnativa che mi avete fatto, di ricordare il cardinale a una comunità che l’ha conosciuto bene, ho scelto di concentrarmi su due fuochi che lo riassumano tutto: la Scuola della Parola e l’invito a guardare lontano. Ovvero: il radicamento biblico della fede e l’impegno ad attestarla davanti alla più ampia umanità.
Per Scuola della Parola intendo l’ininterrotta “lectio divina” che ha svolto lungo l’intero episcopato, a partire dalle letture davanti ai giovani, tenute in Duomo e offerte per radio a tutta l’arcidiocesi, avviate già nel 1980. Appartengono a questo filone della sua attività le omelie, gli esercizi spirituali che dettava in spirito ignaziano, in buona parte gli stessi documenti pastorali, persino i discorsi e i saluti d’occasione che sempre partivano dalla Parola di Dio o a essa tornavano.
Per la Scrittura egli è vissuto, si può dire. L’ho sentito in un’intervista televisiva, il 5 ottobre 2008, fare un’affermazione forte su questa centralità della Parola di Dio nella sua avventura di uomo: «La Bibbia è stata in realtà la mia vita».
Per la chiamata ad alzare lo sguardo e a guardare lontano intendo i suoi moniti alla città, le riflessioni che offriva alla più ampia opinione pubblica con le pubblicazioni e le interviste, i richiami alla necessità di riforme nella società e nella Chiesa. Mi riferisco in particolare alla Cattedra dei non credenti: incontri di dialogo con esponenti della cultura laica – un’anticipazione del Cortile dei Gentili promosso da Benedetto XVI – che prese il via nel 1987 e andò avanti fino al 2002.
La Cattedra dei non credenti ha poi avuto un prolungamento nelle iniziative personali di dialogo ad extra rispetto all’ambiente ecclesiale: le interviste con intellettuali laici (Eugenio Scalfari, Umberto Eco, Giulio Giorello, la rivista MicroMega…), con il chirurgo Ignazio Marino, con i lettori del Corriere della Sera, dove ha tenuto negli ultimi tre anni una rubrica mensile di risposta alle domande dei lettori.
Nella lettera Alzati e va’ a Ninive, la grande città! (1991) Martini distingue sei modalità di presentazione del Vangelo all’umanità di oggi: proclamazione, convocazione, attrazione, irradiazione, contagio, lievitazione.
Con la Scuola della Parola egli cercò di sviluppare in modalità nuova i due momenti tradizionali della proclamazione e della convocazione. Gli altri quattro, innovativi (l’attrazione, l’irradiazione, il contagio e la lievitazione), li ha stimolati con la Cattedra dei non credenti e con l’insieme della sua provocazione rivolta alla comunità cristiana perché cerchi l’intera umanità circostante e si adoperi per far giungere a tutti la Parola del Vangelo: ai carcerati e ai malati, ai terroristi e agli atei, agli immigrati e ai disoccupati, ai giovani, agli anziani.
Perché possa esservi “irradiazione e contagio” tra cristiani e non cristiani il cardinale invita i suoi a “leggere la città con occhio caritatevole, paziente, misericordioso, amico, propositivo, cordiale” e non per buonismo ma per avvertenza profonda dell’appartenenza a Dio dell’intera umanità: “Bisogna sentire l’azione forte dello Spirito in ogni angolo della città” (Alzati e va’ a Ninive).
Il passaggio dall’ascolto della Parola di Dio alla costruzione della città terrena andrebbe illustrato con il richiamo alle iniziative per la “conversione pastorale” della vita diocesana (in particolare il Sinodo ambrosiano), per stimolare il laicato all’assunzione delle responsabilità storiche dei credenti (le Scuole di formazione all’impegno sociale e politico), per il dialogo con l’Islam. Anche solo ad elencare questi settori di maggiore impegno ci avvediamo di come fosse anticipatrice e creativa la sua proposta, che pure oggi ci appare per tanti aspetti insufficiente. Si direbbe che egli vide più di tutti eppure neanche la sua veduta riuscì a tenere dietro alla travolgente mutazione dell’epoca sua e nostra.
Richiamo alcune parole nelle quali egli descrive i passi che ritiene necessari per attuare un’efficace evangelizzazione in Milano e nella città mondiale. Le prendo tutte per comodità di riferimento dalle Conversazioni notturne a Gerusalemme (Mondadori 2008). Le scelgo tra quelle che segnalavano la percezione drammatica dell’insufficienza di quanto si stava attuando.
Egli afferma che non bisogna temere il conflitto: “Se nella Chiesa regna troppa calma, sento la nostalgia di Gesù di lanciare sulla terra il fuoco ardente dell’entusiasmo” (p. 44). “Confido nella radicalità della parola di Gesù che dobbiamo tradurre nel nostro mondo” (p. 109).
Occorre avere uno sguardo ampio, capace di abbracciare l’intera umanità, oltre la distinzione tra credenti e non credenti: “Nella Bibbia, Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo in diversi modi tutti gli uomini” (p. 20). “Voglio una Chiesa aperta, che guardi lontano” (p. 109).
La chiamata al coraggio Martini la rivolge ai singoli, ai giovani, agli educatori e a tutti: “Oggi in Europa la situazione della Chiesa esige delle decisioni”, “Manca la prossima generazione” (p. 42). “Oggi molte cose avvengono per paura” (p. 27).
Occorre “rendere indipendenti i cristiani” istruendoli a “vivere con la Bibbia” in modo da “trovare risposte personali a domande fondamentali” senza dipendere costantemente dall’autorità: “La parrocchia e la Grande Chiesa diventerebbero un contesto che procura stimoli e supporto, non necessariamente un magistero da cui il cristiano dovrebbe dipendere” (p. 66).
Quanto alla predicazione in materia sessuale osserva che “in passato la Chiesa si è forse pronunciata anche troppo intorno al sesto comandamento: talvolta sarebbe stato meglio tacere” (p. 94). Si tratterà di “accompagnare” la maturazione dei giovani “con benevolenza, interrogando e pregando” (p. 96), tenendo conto che “la Bibbia limita in modo evidente i messaggi sulla sessualità” (p. 97).
Rapida conclusione con l’occhio allo stacco dalla lezione di Martini che ci viene dall’irruzione sulla scena di papa Francesco. Dalla pedagogia intellettuale dell’uno a quella popolare e fattuale dell’altro. Dalla mediazione culturale alla scelta dei poveri. Dalla sollecitazione dialogica alla “Chiesa in uscita”. Dall’ultimo grande vescovo della tradizione europea al primo papa latino-americano.
Ora che Francesco è venuto a Milano questa lettura a specchio ci è più facile. E possiamo intendere le parole del cardinale Scola che ha qualificato la novità di Francesco come “un pugno nello stomaco” e che ha detto all’Avvenire del 25 marzo: “Francesco lo sto scoprendo ora”.