Parrocchia della Sacra Famiglia
sul sagrato della chiesa – Frosinone
Giovedì 3 settembre – ore 21,00
Racconterò due parabole dei giorni nostri e poi farò un piccolo commento all’inno dell’apostolo Paolo alla Carità (Prima Corinti 13).
Parabola del figlio che scappa a Londra
Un amico mi racconta di un figlio diciottenne che è voluto andare a Londra, a cercare fortuna. Ammaliato dalla grande città, vi si è come smarrito, fino a passare per il carcere e a cadere in depressione. Il padre – che tanto aveva detto e fatto perché non partisse – è andato a cercarlo e l’ha riportato a casa. E’ stata festa in quella famiglia.
“Quella che hai vissuto è la parabola del figlio prodigo nella città mondiale”, ho detto a quel padre che mi chiedeva se avesse fatto bene a lasciar partire il ragazzo e se facesse bene ora a ingelosire gli altri figli, trattandolo come il prediletto.
E’ raro che oggi i figli chiedano la loro parte di eredità, ma è frequente che chiedano di andarsene. Anzi neanche lo chiedono: ti dicono che se ne vanno e partono. “Ora sono maggiorenne e decido io”, furono le parole con cui quel ragazzo aveva chiuso la discussione.
Fece lo sguattero per dieci ore al giorno, nella cucina di un ristorante. Dormiva in un ostello autogestito e quando lo pagavano veniva derubato nel sonno. Da un furto venne una rissa e il carcere.
Il papà – che corse a cercarlo, quando gli arrivò una comunicazione dal consolato italiano di Londra – lo trovò delirante su un materasso di un ostello in abbandono, ferito in faccia per un’altra rissa.
Dopo il racconto di quell’amico ripasso dieci volte, al rallentatore, la parabola del figlio prodigo (Luca 15, 11-32). Ed ecco che incappo – durando ancora quel ripasso – in un’altra parabola vissuta.
Parabola delle due figlie
Tengo una conferenza intitolata E’ bello essere padri e madri oggi e insisto sulla necessità di lasciare sempre aperta la porta di casa ai figli fuggiaschi. Ho appena terminato di parlare che mi affronta una donna di nome Marta con tono deciso: “Domani devo incontrare la mia sorella Sara per chiederle di tornare a casa o di andarsene del tutto”.
Marta è sposata e ha due figli, mentre Sara, più giovane, non è sposata, non lavora e “un poco vive a casa e un poco con un uomo molto più grande di lei”.
Può capitare che una figlia prodiga dei nostri giorni scappi di casa e vi torni non una volta, ma tante e il “padre misericordioso” nostro contemporaneo la riabbracci e la rifinanzi non una ma dieci volte.
“I miei genitori non li capisco”, si sfoga Marta: “Sara li ha messi in croce in tutti i modi e loro sempre lì ad aspettarla! E’ stata pure in carcere per droga e loro viaggiavano di notte per andarla a trovare e hanno pagato gli avvocati”.
Come il padre del Vangelo, anche quello della mia parabola giustifica con la figlia maggiore la generosità con cui tratta la minore: “Non vorrei che abbiamo di nuovo a perderla, dopo che l’abbiamo ritrovata”.
“Papà”, gli dice la maggiore: “E’ ora che le chiudi la porta in faccia”. “Questo non si può fare con una figlia” è la risposta del padre.
Ho detto a Marta: “Richiama pure tua sorella e spingila a decidere, ma tieni l’atteggiamento di tuo padre come una luce per te”. Io non lo condivido, obietta. “Forse hai ragione a dire che è troppo debole, ma fai attenzione e vedrai che nel fondo il suo è un atteggiamento evangelico” le rispondo.
Dalle parabole alla vita
Esercitare la carità con i figli può comportare un’assimilazione – che suona inaudita, non l’avesse detta Gesù – al Padre misericordioso. Infinita è poi l’avventura della carità che dovrebbe portarci ad amare come noi stessi e come i nostri figli ogni uomo e ogni donna, ogni figlio e ogni figlia che incontriamo nella vita.
Quell’avventura non si compie – anzi neanche si avvia – se non ci lasciamo guidare dalla carità in cui il Signore ci ha posti, inserendoci nella fraternità dei suoi discepoli. Ma essa comporta anche un esercizio nostro di adattamento, che potrebbe prevedere due tempi di esecuzione: fare sobria la vita e collocare, nello spazio così ricavato, i fratelli bisognosi.
La ricerca dell’essenziale ci fa sobri, la sobrietà ci aiuta a dare corpo alla solidarietà. E ci aiuta in due modi principali: perché libera il tempo che ci è necessario per farci solidali e perché libera le risorse da destinare al prossimo. Quello che resta lo darete ai poveri, diceva il precetto classico.
Riusciamo davvero a destinare qualcosa di nostro al prossimo? Tempo libero, privacy, denaro, energie mentali, preghiera, fantasia creatrice e modificatrice della nostra vita?
Non abbiamo tempo per nulla perché investiamo il tempo libero in lavoro aggiuntivo, o lo sciupiamo in occupazioni non necessarie: hobbies e vacanze invadenti, mondanità minute, culturismo, yoga, letture e navigazioni on line senza meta. La sobrietà della vita – contentarsi di ciò che è necessario all’esistenza: un lavoro e una casa – ci restituisce il tempo e il controllo del suo utilizzo.
Chi vive nella famiglia ha stimoli sovrabbondanti ad aprire le porte al prossimo: i figli portano in casa i loro compagni e tra essi c’è chi ha bisogno, nelle scuole che frequentano ci sono ragazzi extracomunitari, i giri delle conoscenze adulte si moltiplicano.
Con i figli che crescono e iniziano a mettere bocca nelle decisioni economiche, la via della carità familiare può farsi ardua. Un’adozione a distanza, accolta con gioia dai bambini, può provocare irrigidimenti nell’adolescente, che si è visto negare una gita o una vacanza più costosa: “Dobbiamo sempre rimetterci noi?”
La vera educazione familiare alla solidarietà si realizza in questo snodo dei figli che crescono. E già protestano per il fatto che sono più di uno e non hanno quanto avrebbero avuto se fossero stati figli unici. I genitori devono addestrarsi a motivare. Se hanno profonde motivazioni, contageranno i ragazzi.
Si tratterà poi di realizzare un’alleanza – e quasi una complicità a due – tesa a fare in modo che la vita sobria favorisca l’esercizio dell’ospitalità. L’ospitalità sarà a sua volta una costante provocazione a fare della nostra vita familiare una scuola della carità. Poi non ci resta che affidare i nostri figli al Signore.
La famiglia come “inno alla carità”
Concludo proponendo una lettura familiare dell’inno alla carità dell’apostolo Paolo, che apre il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinti.
La carità è magnanima: ha il cuore grande come quello di una madre o di un papà, accoglie tutti e fa festa se un figlio torna a casa.
Benevola è la carità: cioè benigna e benefica secondo l’insegnamento di Cristo che passava beneficando tutti. E secondo l’esempio che danno le famiglie affiatate.
Non è invidiosa: non dice mai “questa vostra figlia la trattate troppo bene”.
Non si vanta: ma c’è spesso chi dice: “Tra tutti i fratelli io sono l’unico che porta soldi a casa”.
Non manca di rispetto: si può mancare di rispetto verso i genitori ma anche verso i figli. Per esempio non tenendo conto della loro crescita e continuando a trattarli come bambini anche quando sono maggiorenni.
Non cerca il proprio interesse: nel senso che non mira mai a un proprio “interesse” che non sia l’interesse di tutti. Pensate alle liti per l’eredità!
Non si adira: purtroppo sappiamo quante ire e quante tragedie dell’ira esplodono nelle famiglie. Ultimamente abbiamo letto di un figlio che ha ucciso il padre che si era giocato tutto al Superenalotto.
Tutto scusa, tutto crede: comprese le giustificazioni di comportamenti apparentemente ingiustificabili, come fanno appunto i genitori con i figli, tanto che la loro testimonianza non vale in tribunale.
Tutto spera: anche che i figli tornino alla pratica domenicale, o non abbandonino mai in cuor loro la fede a cui li abbiano avviati, benchè esteriormente sembrino averla dimenticata.
Tutto sopporta: penso a una donna abbandonata dal marito che non sparla di lui con i figli.
Da genitore applicherei tutto l’inno di Paolo agli atteggiamenti delle madri e dei padri. E’ un’applicazione confortante. Ci dice che non c’è esperienza più diffusa dell’amore. E arrivo a pensare che per essere cristiano dovrei tendere ad avere con ogni persona la stessa “benevolenza” che ho verso i figli.
Un ultimo spunto lo prendo dal versetto 8: La carità non avrà mai fine. Mai si perde l’amore e anzi alla fine sempre trionfa. E non solo l’amore che è Dio ma anche – in lui – ogni nostro sentimento dettato dall’amore. In un certo senso l’amore resta sempre e vince sempre, anche nell’avventura familiare.
Per esempio: quanto avremo dato ai figli in denaro e libri e tempo e libertà e severità, tutto potrà essere da loro contraddetto – “non mi hai mai dato un capretto” – e tutto comunque un giorno finirà, ma resterà l’amore che gli avremo trasmesso.
La possiamo applicare – questa idea dell’amore che non si perde e capitalizza in Dio – anche alle persone che amano senza essere riamate, o che continuano ad amare chi non è più sulla terra.
Due esperienze, anche queste, abituali nella vita di famiglia.