per gli incontri mensili dell’Anno Giubilare
promossi dalla Parrocchia dell’Immacolata
Via degli Etruschi 36
Giovedì 7 aprile 2016 – ore 21.00
Conferenza di Luigi Accattoli
Misericordiae Vultus 9: la misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Egli non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Lui si sente responsabile, cioè desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni. È sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri.
13.?Vogliamo vivere questo Anno Giubilare alla luce della parola del Signore: Misericordiosi come il Padre.
15.?È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti.
Le tratteremo cercando di interpretarle, di “tradurle”, nel concreto della vita di oggi, dove ognuna di esse comporta applicazioni fino a ieri sconosciute. Papa Francesco è un maestro di questa attualizzazione, che svolge abitualmente con i gesti che accompagnano la sua predicazione e che propone specificamente in questo tempo giubilare con i “Venerdì della misericordia”, cioè con le visite a persone che sono nel bisogno che compirà un venerdì al mese lungo l’Anno Santo.
Il 15 gennaio ha visitato una “Casa di riposo per anziani” e una “Casa per malati in stato vegetativo”; il 26 febbraio ha incontrato i 55 ospiti di una “Comunità terapeutica” per il recupero dei tossicodipendenti fondata da don Mario Picchi e che si trova a Castel Gandolfo; il 24 marzo, giovedì santo, ha lavato i piedi a 12 ospiti del centro profughi di Castelnuovo di Porto. Il 16 aprile andrà nell’isola di Lesbo: ecco quattro o cinque opere che la tradizione non conosceva. Fino a ieri non c’erano la droga e i malati in stato vegetativo, fino all’altro ieri non c’erano le case di risposo, fino agli ultimissimi decenni non c’era il fenomeno dei richiedenti asilo come noi oggi lo conosciamo.
- Dare da mangiare agli affamati
- Dare da bere agli assetati
Metto insieme i due soccorsi primari ai bisognosi: mangiare e bere. Oggi la fame e la sete sono drammi del Sud del mondo, che arrivano tra noi con i profughi e gli immigrati – e per aiutarci a fare fronte a questa sfida epocale ci è stato dato un Papa del Sud del mondo.
La Chiesa dei poveri che già si affaccia nelle parole di Giovanni XXIII (1962) e la sequela del “Cristo povero” che fa capolino al paragrafo 41 della costituzione conciliare Lumen Gentium (1964); la scelta dei poveri compiuta dalla Conferenza degli episcopati latino-americani a Medellin (1968): da quelle premesse e sorgenti è venuto una rinnovata esperienza ecclesiale, anche martiriale, dell’imitazione del Cristo povero che ha portato all’elezione del Papa argentino. Dal Papa argentino è venuta la Laudato si’ (2016) che tratta insieme del grido della terra e dei poveri del pianeta che si trovano privati di cibo e di acqua.
Dare da bere: in certe situazioni anche un bicchiere d’acqua è opera di misericordia. Dice Gesù in Matteo 10: Chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli non perderà la sua ricompensa. Così in antico, ma anche ieri con i deportati della seconda guerra mondiale e di ogni aggressione bellica e oggi con i migranti sui barconi ai quali vengono lanciate taniche d’acqua dagli elicotteri e con quelli che attraversano i deserti e che persone misericordiose riforniscono d’acqua con vari espedienti.
Ma io che posso fare? Sgombriamo subito il campo da questa obiezione che viene suggerita dalla pigrizia e dal perbenismo, e che vale per tutte le sette opere: io devo fare – e se non posso fare di persona, aiuterò chi fa. Trattare con un barbone ulceroso che non si vuole curare richiede qualche preparazione, ma io posso segnalare il suo bisogno, procurare il contatto con l’ambulatorio, accompagnare in automobile il barbone e il suo soccorritore. Portarlo a un ricovero e dire all’albergatore: Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più te lo pagherò al mio ritorno.
Nel fare – poi – o nell’aiuto a chi fa, dovremmo attenerci ad alcuni criteri minimi perché sia un’opera e non un gioco, o un passatempo a nostro conforto psicologico. Ne indico tre.
Primo: che si tratti di qualcosa che costa, che vale, che chiede tempo; e non di qualcosa di superfluo. Dare un euro al mendicante, portare i vestiti usati in parrocchia, comprare le rose al venditore che va per ristoranti non sono opere. Per intendere che cosa vale e che cosa no, possiamo prendere a misura il tempo che gli dedichiamo e il lavoro che potremmo svolgere in esso: da un’ora a una giornata, tanto per intenderci. Sotto l’ora di tempo non potremo chiamarla “opera”.
Secondo: che sia una via di avvicinamento al bisognoso, un’occasione di contatto, se possibile di conoscenza, di coinvolgimento. Dice Francesco: Quando fai l’elemosina guardi negli occhi, tocchi la mano, chiedi il nome di colui al quale fai l’elemosina? Se non lo hai toccato non lo hai incontrato. Potresti chiedergli se ha dei figli, da dove viene, di che altro avrebbe bisogno, se crede in Dio, se prega, se può pregare con te.
Terzo: fin dove arrivare, quanti aiutare? Non porsi regole facilmente osservabili ma seguire un criterio di progressivo avvicinamento all’ideale evangelico: Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso (Luca 6, 36). Oggi qualcosa più di ieri. Quest’anno un passo in più rispetto all’anno scorso.
- Vestire gli ignudi
Vediamo nei telegiornali il profugo e il naufrago coperti con giacche e giubbotti dai soccorritori, che in casi estremi se ne spogliano per coprire chi esce bagnato dall’acqua.
Con l’arrivo tra noi di tanti profughi e immigrati siamo tornati a sperimentare il bisogno del vestimento: a vederlo con gli occhi a fargli fronte.
Altra attualità di quest’opera: in tante parrocchie e centri Caritas sono stati realizzati dei “servizi docce” dove si offre ai senzatetto sia la possibilità di lavarsi, sia un cambio di biancheria.
Il Papa a San Pietro, al margine del Colonnato di destra, ha fatto realizzare una barbieria, oltre al servizio docce. E l’ha fatta realizzare all’elemosiniere: l’elemosina deve farsi creativa.
Non limitiamoci dunque a portare i vestiti usati ai centri di raccolta: quello è piuttosto un gesto utile a noi che abbiamo gli armadi pieni. Lo faremo, ma sapendo che non costa e non è un’opera.
Offriamoci di lavorare nel dispensario. In questo degli abiti come in quello dei cibi. Diamo una mano per risistemare quei vestiti, per distribuirli. Conversiamo con chi viene a cercarli. Facciamo domande che mirino alla vita, oltre la scelta del giusto capo di vestiario.
Facciamo in modo che si sentano liberi e rispettati nel diritto di scegliere l’indumento o il cibo che preferiscono. Che abbiano la possibilità di specchiarsi quando provano un abito. Che possano provarne più d’uno.
Se avremo pazienza con il povero almeno quanta ne ha un commesso di un negozio con il cliente, o un cameriere di un ristorante, allora possiamo dire che la nostra è un’opera e che stiamo “vestendo” gli ignudi, o “sfamando” gli affamati.
- Accogliere i forestieri
“Ospitare i pellegrini” si diceva una volta quand’era raro che arrivasse tra noi uno sconosciuto.
“Ospitare i rifugiati” è il titolo che abbiamo dato, nella mia parrocchia romana, al gruppo che abbiamo costituito per aiutare il parroco a dare attuazione all’impegno chiesto dal Papa di accogliere una famiglia di rifugiati.
Le forme e le parole sono tante ma la realtà è una: dare un ricovero a chi è senza casa e spesso anche senza patria.
Ogni cristiano dovrebbe ingegnarsi a trovare un suo ruolo nella risposta a questa sfida epocale. Ci sono da adattare dei locali, c’è bisogno di un elettricista, di un idraulico, di un falegname, di un imbianchino. Si devono raccogliere fondi. Questi ospiti devono essere accolti materialmente ma anche familiarmente: c’è bisogno di chi parli la loro lingua, di chi li aiuti ad apprendere la nostra lingua, di chi si occupi dei bambini e dei malati che sono tra loro.
Il gruppo che si è costituito nella mia parrocchia si è anche impegnato a invitare queste persone nelle case il sabato e la domenica, per aiutarle ad ambientarsi, per farle sentire in famiglia.
Per farle sentire in famiglia occorre rispondere anche a qualche aspettativa che non sia solo materiale e di prima necessità. Il Papa ha invitato i senzatetto a visitare la Sistina, ha offerto loro un concerto e uno spettacolo teatrale, una gita a Torino per la Sindone.
- Assistere gli ammalati
Quest’opera era detta anche “curare gli infermi”: cambia la dicitura perché ora gli infermi li cura il sistema sanitario nazionale.
Ma c’è anche chi è senza assistenza e ci sono ora anche nelle nostre città dei dispensari farmaceutici dove medici volontari curano immigrati – magari clandestini – che sono senza assistenza medica e ovviamente senza denaro.
Possiamo indicare tre livelli, o tappe, di quest’opera: quella familiare, dell’assistere in casa propria anziani e malati e la chiameremo “opera di misericordia familiare”; quella dell’assistenza, o anche visita, o compagnia offerta al malato e all’anziano nel suo domicilio; infine quella del volontariato ospedaliero, o presso comunità di accoglienza per malati o loro familiari.
E’ una fascia di bisogni e di possibili risposte molto ampia e varia: dalla conversazione con l’anziano solo all’assistenza dei malati di Aids, all’accompagnamento dei tossici sulla via del riscatto, all’accoglienza dei malati psichici dimessi dagli ospedali.
Il Papa oggi 26 febbraio, come dicevo, è andato dai tossici: possiamo assimilarli ai malati.
Questo dei malati e dei sofferenti a loro assimilabili è un settore di esercizio della carità che non ha confini e che abbisogna di ogni apporto. La Chiesa come ospedale da campo, dice Francesco per aiutarci a intendere l’attesa dell’umanità bisognosa.
Ma uno che non ha preparazione, che ha solo buona volontà e del tempo a disposizione, poniamo perché è in pensione, che potrebbe fare? Inizierà dalle persone che ha intorno. Un anziano solo che abita a pochi metri da casa tua. Gli fai visita. L’aiuti a uscire. Gli leggi un libro. L’accompagni in libreria o al cinema. Tieni i contatti con il medico o il parroco. L’accompagni in chiesa o sei lì con lui quando il diacono gli porta l’Eucarestia. Fai con lui la comunione. Fai famiglia con chi non ha famiglia.
- Visitare i carcerati
Quest’opera di misericordia oggi è quasi impossibile. Rispetto al tempo di Gesù, è verosimile – anzi è certo – che oggi le carceri siano migliori per ogni aspetto tranne che per questo: allora uno poteva visitare chi era in carcere, altrimenti Gesù non avrebbe detto ero in carcere e mi avete visitato, mentre oggi l’impresa è fuori dalla portata di un comune cittadino.
Aiutavo un ragazzo che è finito in carcere per la droga e mi sono reso conto di quanto sia difficile fare visita a un carcerato. “Ha già avuto tre visite in un mese e non può averne un’altra”. “Lei non è un parente e non è neanche assistente sociale”. “Per una ragione disciplinare gli sono state bloccate le visite”.
Da quella minima esperienza è nato un mio impegno duraturo con le carceri: sono nella giuria di un premio di scrittura per detenuti, il “Premio Castelli” promosso dalla Società di San Vincenzo de’ Paoli, che una volta all’anno mi porta in un carcere per la premiazione; e che lungo l’anno mi impegna a leggere e valutare insieme agli altri giurati 200-300 lavori che ci vengono inviati dai concorrenti.
Per questa via ho qualche conoscenza del mondo carcerario e in base a essa affermo che se non sei un volontario delle carceri abilitato come tale a fare visita ai detenuti, o a partecipare a qualche programma che li coinvolga, puoi adoperarti al sostegno dei volontari che dispongono di tale abilitazione. E procurerai denaro, libri, materiale didattico, vestiti e cibi per le loro attività e le loro feste. Puoi anche offrirti di tenere una corrispondenza epistolare con un detenuto.
Ci sono tante esigenze nelle carceri alle quali dare risposta e più ancora ce ne sono per il dopo carcere: chi esce dal carcere e non ha una famiglia, non ha un ambiente. Anche per quest’opera di misericordia post-carceraria esistono comunità e gruppi di volontariato con i quali collaborare.
- Seppellire i morti
Questa è l’opera di misericordia che oggi risulta più fuori epoca, almeno nel senso diretto del prendere un morto e scavargli una fossa piantandovi sopra una croce. Da quando Napoleone ha regolamentato le sepolture, al cittadino non è data facoltà di seppellire nessuno.
Vi sono ovviamente situazioni straordinarie. E’ divenuto famoso un falegname di Lampedusa che fa bare e croci per seppellire i corpi dei migranti restituiti dalle onde. E tutti abbiamo visto il corpo di un bambino iracheno – Aylan Kurdi – raccolto su una spiaggia turca da un militare, e altri casi simili.
Ma nell’ordinario, che possiamo fare in obbedienza a quest’opera di misericordia?
Stare sempre dalla parte dei seppellitori e di chi – nel mondo – si batte per onorare di sepoltura i morti. Quando sentiamo che è troppo costoso recuperare i morti che sono dentro una nave affondata, poniamo. O quando nasce una polemica sul diritto degli immigrati a essere accolti nei nostri cimiteri e si propone per loro una sistemazione alternativa. O quando c’è da affrontare una spesa per riportare uno di questi morti al suo paese, dalla sua gente.
Aiutare i giovani e i bambini a intendere il culto dei morti che è proprio del cristianesimo.
Se non possiamo partecipare a un funerale, proporre ai parenti del defunto una visita di gruppo alla sua tomba, o la partecipazione comunitaria – noi e loro – a una messa in memoria di quel parente o amico.
Fare il possibile per essere presenti alle esequie di persone che non hanno accompagnatori nel loro ultimo viaggio. No ai funerali ai quali si va per farsi vedere. Sì a quelli ai quali non va nessuno.
Nella preghiera tradizionale per i morti c’era sempre quella “per i morti di cui non si ricorda nessuno”: quella preghiera la possiamo attualizzare così: curandoci dei morti e delle tombe dimenticate.
Conclusione
Concludo con una riflessione sulla parabola evangelica del giudizio finale: Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere. In essa i “giusti” dicono Signore quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare? Sembrerebbe cioè che il merito di quell’opera non sia legato alla fede cristiana, tant’è che l’acquisisce chi non sa di Cristo. Ovvero: ci viene detto che tocca la carne di Cristo anche chi opera il bene senza pensare a Dio. Vuol dire che dobbiamo restare su questo piano del soccorso materiale, o siamo chiamati a un completamento in Cristo di quell’opera?
Il soccorso per solidarietà da uomo a uomo – Un samaritano che passava di là lo vide e ne ebbe compassione – è sufficiente e salva anche chi non sa di Cristo. Ma noi che sappiamo, dovremmo condurre quell’opera in modo che essa possa culminare nell’invocazione del nome del Signore, ogni volta che ciò sia possibile.
Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare: così Benedetto XVI nell’enciclica “Deus caritas est” (2006) al paragrafo 31.
Ci è dunque lecito e anche doveroso chiedere a colui che soccorriamo se crede, se prega e se accetta di pregare con noi. Ma se questo non ci è dato, perché colui è ateo, o professa un’altra religione, o non parla nessuna lingua da noi conosciuta, la nostra opera sarà comunque piena avendo espresso misericordia e dunque avendo già, a suo modo, detto il nome di Dio. Nome che appunto è misericordia, cioè amore.
Il nome di Dio è Misericordia è il titolo del volumetto di Papa Francesco con Andrea Tornielli pubblicato un mese fa dall’editore Piemme. Titolo che è preso da un testo di Papa Benedetto, che Francesco cita a pagina 23. Un prestito di parole che sta a dire la continuità essenziale tra i due Papi, pur in tanta diversità di parola e di azione: continuità tra la teologia dell’amore di Benedetto e la pastorale della misericordia di Francesco.