La folla del passeggio romano, nella quale mi immergo felice.
Quella della spiaggia di Santa Marinella, che frequento da otto anni con buon divertimento dei figli più piccoli.
Quella degli stadi che non conosco, ma che le settimane dei mondiali mi hanno variamente avvicinato.
Quella di San Giovanni Rotondo, che ho rivisto ingigantita dopo la canonizzazione di padre Pio: un poco la capisco, ma vorrei amarla di più.
Eccomi a una finestra della sede romana del Corriere della sera a osservare, con un gruppo di colleghi, il passeggio domenicale su via del Corso. Nulla mi piace come guardare la gente in festa. Considero un dono della professione giornalistica la quantità di folle che mi ha fatto attraversare.
“Guarda che folla di cretini”, dicono invece i colleghi: “Abbigliati e inquadrati dal lavoro e dalla televisione, leggono tutti nelle stesse settimane Il Signore degli anelli eppure ognuno si crede un dio”.
Uno dei colleghi mi legge in faccia la contrarietà con cui li ascolto e prova a correggere il tiro: “Forse è diversa la gente che va in chiesa la domenica. Là ascoltano altre parole. Ma la folla del passeggio è insopportabile. Le ragazze con l’anello all’ombelico, i ragazzi con il codino. Quelle ragazze poi vanno dai maghi a farsi spennare e i maschi vanno dalle prostitute nigeriane, come fosse la festa dell’eros”.
Azzardo che ognuno è un mistero e che i comportamenti stolti non dicono l’intimo delle persone.
“Tu parli così – osserva un collega – perché sei cattolico, ma credo proprio che ti sbagli! Vedi il Corso pieno e pensi a quando lo riempivano i ragazzi della Giornata mondiale della gioventù. Ma bada che c’è un abisso. Quelli erano allegri, questi sono tutti uguali”.
“I ragazzi del papa – dice un altro – erano belli, ma sono finiti subito. Ogni tanto vado alla mia parrocchia e vedo tante persone anziane. Anche nelle chiese ormai i giovani sono pochi”.
Anche questo popolo
appartiene al Signore
Sono sceso a passeggiare tra la gente, finché ho trovato la giusta risposta ai miei colleghi tardo-sessantottini, quella che il Signore dà a Giona, che nutriva per Ninive sentimenti simili ai loro per la folla romana: “Non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra?” (Genesi 4,11).
Capisco l’intenzione di critica sociale dei colleghi, ma sto dalla parte della gente più semplice e magari più cretina e persino più farabutta! Io voglio bene all’umanità del passeggio domenicale e sono certo che nessuno si salva se non si salvano loro.
Credo che proprio nella folla metropolitana il cristiano comune sia chiamato a realizzare una presenza fraterna, dello stesso segno di quella tentata da Charles de Foucauld tra gli abitanti del deserto.
Anche la folla della città mondiale è indisponibile ai messaggi proclamati, esattamente come i tuareg musulmani. Ma anch’essa è sensibile al segno della fraternità. E lo merita, certamente.
Ognuno vorrebbe essere felice. Tutti vorrebbero vivere per sempre. Ognuno e tutti cercano chi li ami. Attendono un segno e un senso, un miglioramento, una salvezza, magari senza sapere da chi.
Il cristiano ha la missione di dire a queste persone il nome e la parola di Gesù. Ma potrà dirli con pieno significato e potrà essere inteso, se parlerà la lingua dei suoi interlocutori. Cioè se vivrà la loro vita e se avrà in sé i loro sentimenti. Ecco perché non mi stacco, neanche un momento, dalla folla del passeggio domenicale!
Appartengo a quella folla e penso bene di essa. Voglio appartenere e voglio pensare bene.
“Io ho un popolo numeroso in questa città”, dice il Signore a Paolo (Atti 18,10), quando gli ordina di restare a Corinto, immagine perfetta della città mondiale. Anche questa folla romana appartiene al Signore. È il suo popolo numeroso in questa città. Figli di Dio e suo popolo sono tutti gli uomini e non solo quelli che vanno in chiesa la domenica.
Quelli che andiamo in chiesa ci andiamo a nome di tutti. Ci andiamo per ritrovarci nel Signore e per ascoltare le parole necessarie a darne la notizia alla comune umanità.
Come se il popolo
non fosse la Chiesa
Non dobbiamo staccare mai, neanche per ragionamento, la Chiesa dal popolo. Lo si potrebbe fare solo supponendo che il popolo non sia la Chiesa, che è ipotesi assurda: “Quasi populus non sit Ecclesia” (Erasmo da Rotterdam, Dulce bellum inexpertis, 14). Se valeva per Erasmo, dovrebbe valere due volte per noi, dopo la Lumen gentium e la dottrina del popolo di Dio.
Per che cosa ci è stata data quella dottrina se non per farci avvertiti – alla vigilia della grande secolarizzazione – che diminuendo il popolo Chiesa non diminuisce il popolo di Dio? Che Dio ha un popolo numeroso in ogni città, destinato a riconoscersi tale, se ancora non lo sa?
Ma il popolo che nominava Erasmo era un popolo cristiano! E il nostro invece che sarà? È ugualmente battezzato. Pratica meno i sacramenti, ma di più la carità. Per una parte di loro si può dire che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, ma la cosa non era diversa mezzo millennio addietro! E comunque “coloro che non hanno ancora accolto il Vangelo, sono ordinati al popolo di Dio in vari modi” (Lumen gentium, n. 16; EV 1/326).
Il codino, l’ombelico di fuori e l’anello sull’ombelico: non li vedo male. Direi che li amo.
La ragazza che va dal mago e il ragazzo che si paga una prostituta di colore, certo in questo non li lodo! Cercano qualcosa che non sanno.
Voglio pensare bene non perché sono ingenuo, ma per andare oltre l’apparenza. I vestiti, la lingua, l’ombelico e la prostituta ci dicono la pelle e non l’anima di questa umanità.
La fede cristiana mi dice che in ogni uomo c’è l’immagine di Dio e che quell’immagine può essere risvegliata e quell’uomo può – misteriosamente – giungere a un’intimità assoluta con Dio.
Ogni uomo confina con Dio. Dove finisce la creatura inizia il creatore. E ognuno è capace di contenere Dio. Sì, di ospitarlo. Di lasciarsi abitare.
La folla degli stadi
e quella di padre Pio
Anch’io ho avuto a soffrire nelle settimane dei mondiali di calcio. Non per la sorte dell’Italia, ma vedendo persone che andavano in ansia, anche vicino a me e altre che piangevano sconsolate in televisione. Prima i nostri. Poi folle intere di coreani e di tedeschi.
Il collega d’ufficio che al goal di Ronaldo corre per le stanze gridando “Dio esiste” direi che lo capisco. Ma proprio non lo capivo, quello stesso collega, quando rischiava l’infarto perché l’Inter perdeva male lo scudetto, in casa nostra, il maggio scorso.
Io vorrei che lo sport fosse festa e nient’altro. Ma le folle inermi dei mondiali mi segnalano che non si dà gioia senza pena.
Più difficile, per uno come me, è la folla di San Giovanni Rotondo. Non la folla direi, ma quell’altoparlante che continuamente diffonde musica, canti, esortazioni. E tutte quelle bancarelle, medaglie, rosari, bocce con l’effetto neve, boccette con il profumo.
Una signora di mia conoscenza dice d’aver sentito il profumo di padre Pio, “come di violette”, mentre era in casa da sola alla vigilia della canonizzazione. Sentendo che vado a San Giovanni Rotondo mi chiede di verificare se “vendono il profumo di padre Pio”.
E sì che lo vendono: “Essenza di rosa. Prima c’era anche in versione spray, ma costava troppo, anche trenta euro, mentre questa la vendiamo a cinque euro”. Acquisto la boccetta e telefono alla signora: “Dunque lo vendono! E pensare che mi prendevano in giro, quando dicevo che l’avevo sentito!”
Provo a spiegare che è un qualsiasi profumo di rosa, che non ha nulla a che fare con padre Pio: “Ma allora perché lo vendono?”. La signora cerca il miracolo e non sarò certo io a chiarirle la faccenda.
Torno a Roma ed eccomi dall’ambasciatore del Cile presso la Santa Sede, Maximo Pacheco Gomez, che dà un pranzo in onore di Navarro-Valls. Chiedo all’ambasciatore come abbia rappresentato al suo governo l’importanza della canonizzazione di padre Pio e mi risponde che non gli è stato difficile, perché – da giovane – conobbe il nuovo santo.
Era in Italia, con una borsa per studi internazionali, quando gli venne curiosità di vederlo. A San Giovanni Rotondo gli dissero che non poteva incontrarlo altrimenti che confessandosi da lui. Si mise in fila e sentì dirsi: questi sono i tuoi peccati, questa è la tua penitenza. “I miei peccati erano in verità di più, ma quelli non li potevo negare e accettai la penitenza”, conclude con finezza l’ambasciatore.
Ho misericordia di questa folla
La gente cerca il miracolo, oggi come al tempo di Gesù. Si direbbe che duemila anni di cristianesimo non abbiano scalfito l’atteggiamento di partenza. Io ci vedo un’altra ragione per ritenere che siamo solo agli inizi dell’avventura cristiana sulla terra.
“Gesù non disprezzava la gente che lo cercava per i miracoli”, mi dice il padre Raniero Cantalamessa, che intervisto per il Corriere della sera il giorno della canonizzazione.
Io non corro il rischio di disprezzare chi cerca i miracoli. Mio padre – contadino marchigiano – andava da padre Pio ogni volta che aveva un problema di salute.
Non corro il rischio di disprezzare nessuna folla, ma devo imparare a tenere insieme la folla del passeggio romano, che mi rappresenta la città mondiale, con quella della spiaggia, così ingenuamente assetata di felicità e con quella degli stadi, che soffre per nulla e infine con quella di San Giovanni Rotondo che cerca i miracoli. Tutte queste folle poi le devo mettere con quelle dei Vangeli, delle quali egli sempre sentì compassione (Matteo 14,14).
Luigi Accattoli
Da Il Regno 14/2002