Verona – Teatro dell’Istituto don Mazza – sabato 8 novembre 2014 – ore 16.15
Questo è un tempo di grazia perché noi cristiani – qui in Europa e innanzitutto in Italia – avevamo un grande bisogno di una scossa e in pochi mesi, nell’anno di grazia 2013, ne abbiamo avute tre:
- La sorprendente e risvegliante rinuncia di Papa Benedetto
- L’elezione di Papa Francesco con le sue inattese novità
- Il monito del nuovo Papa a porci come “Chiesa in uscita”
Le prime due scosse ci sono state “date”, erano fatti oggettivi, non ci era chiesto altro che di comprenderle. Non so quanto e quanti le abbiamo comprese, ma tutti in qualche modo abbiamo accusato il colpo. Chiamo “risvegliante” la rinuncia di Benedetto, traumatica e dolorosa per tanti tra noi, perché ci ha destati da un sonno pericoloso: e il risveglio è comunque un segno di salute, o una provocazione a essa.
La terza scossa invece – a mio parere la più importante – non ha la natura dei fatti oggettivi che ci interpellano dall’esterno, ma è una vocazione che chiede di essere accolta, esiste solo se l’obbediamo; e qui credo che siamo inadempienti.
Non solo non vedo segni di obbedienza a quella chiamata a uscire, ma credo che dai più essa non sia stata neanche colta – e quelli che l’hanno colta magari l’hanno commentata – “Tu che ne dici?” – ma forse non l’hanno obbedita in nulla.
Fate una prova: chiedete a dieci vostri amici quale sia per loro la novità maggiore, o la parola più importante di Francesco fino a oggi: le vesti semplificate, l’abbandono dell’appartamento, la “Chiesa dei poveri”, il non giudicare “il gay che cerca Dio”, i passi per il governo collegiale della Chiesa, o per la riforma della Curia e dell’Ior… – credo che pochi o forse nessuno vi dirà che la novità sia la Chiesa in uscita.
Io sono invece convinto che la vera novità sia qui e oso affermare che se non obbediamo a quella chiamata vanifichiamo l’intera dote – o dono – di cui è portatore Francesco e che tutta è in funzione della chiamata all’uscita.
Se non usciamo con lui, Francesco resterà un Papa simpatico, estroverso, che ha alleggerito – o ha tentato di alleggerire – i conflitti con la modernità e che ha semplificato l’immagine e il linguaggio, ma che non avrà ottenuto quello per cui è stato eletto – in accoglienza al monito rivolto ai confratelli cardinali alla vigilia del Conclave, della Chiesa chiamata a uscire da se stessa per evangelizzare; monito che viene ripetendo da quando è stato eletto e intorno al quale ha costruito il programma del Pontificato, consegnato all’esortazione “La gioia del Vangelo”.
Segnalo in particolare questo motto dell’esortazione, che invito a memorizzare: “Riforma della Chiesa in uscita missionaria” (n. 17). Esso bene sintetizza il programma del Pontificato. E facilmente lascia intuire in che senso si tratti di una scossa per tutta l’ecumene cattolica e per la cattolicità italiana in particolare.
Per quanto riguarda l’Italia, Francesco ci sta invitando a correggere – se non a rovesciare – della nostra considerazione compiaciuta per l’antichità, l’organizzazione, la disponibilità di persone e di mezzi della nostra cattolicità; relativamente sicura nella dottrina e nella disciplina rispetto ad altre comunità cattoliche europee, forse la meglio attrezzata per resistere all’offensiva della secolarizzazione.
Stabile ma autoreferenziale: è la messa in guardia che ci viene dal Papa argentino. Capace di resistere ma debole e quasi muta nella comunicazione verso i non credenti. Quindi forse più bisognosa di “riforme per l’uscita” rispetto ad altre comunità cattoliche nazionali.
Provo a dire il monito epocale di Papa Francesco seguendo il suo metodo delle “parole chiave” e ci provo con quattro parole: uscire, Vangelo, poveri, misericordia.
Uscire. “Uscire uscire” – “uscire dalla nostre comodità e andare alle periferie geografiche ed esistenziali” – “uscire” dal recinto delle istituzioni e del linguaggio ricevuto – uscire dall’ingabbiamento dell’annuncio cristiano in una ideologia religiosa irricevibile per l’umanità contemporanea. Uscire dagli ambienti popolati da cristiani praticanti e andare dai non credenti, o da chi ha rotto con la Chiesa. Uscire perchè le 99 pecore sono fuori e nell’ovile ormai ce n’è una sola. E’ in questa chiave che vanno interpretate le “interviste” a Eugenio Scalfari e la telefonata a Pannella – la lavanda dei piedi estesa a chi non è cristiano e a delle donne, uscendo dalle rubriche – l’andare ai profughi e ai naufraghi di Lampedusa che in gran parte non sono cristiani – il suo segnale ai gay: Chi sono io per giudicare un gay che cerca Dio?” – l’andata dai pentecostali di Caserta in quella forma fraterna, unicamente mirata a Cristo – la benedizione in silenzio ai giornalisti perché “tra loro dei non credenti”.
Vangelo. “Vangelo Vangelo” è stato il grido che Papa Francesco ha proposto ai giovani sul piazzale della Basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi il 4 ottobre 2013, e ponendo quel grido a logo del suo messaggio – affermando che se lo sente dire da San Francesco e che “se io non riesco a essere un servitore del Vangelo, la mia vita non vale niente”. Il Vangelo prima delle dottrine. Il Vangelo liberato da impalcature ideologiche che “allontanano” anziché “convertire”. Il “pastorale” che viene prima del “dottrinale” secondo il principio che il magistero pastorale della Chiesa include quello dottrinale, su cui aveva insistito da cardinale in una relazione alla Pontifica Commissione per l’America Latina nel 2009.
Poveri. Uscire per portare il Vangelo innanzitutto ai poveri – ai poveri di tutte le povertà: e la più grande è la privazione della fede – “Quanto vorrei una Chiesa povera e per i poveri” – una Chiesa missionaria “povera e samaritana” – una Chiesa “ospedale da campo” che innanzitutto cura le ferite dell’umanità che incontra nella sua uscita. Una Chiesa che si lascia “evangelizzare dai poveri”: cioè aiutare nella ricerca della comprensione e dell’assimilazione a “Cristo povero”. Applicazione all’Italia: la nostra Chiesa fa molto per i poveri – è il suo vanto di sempre – ma poco si lascia evangelizzare dai poveri. Attua il primo movimento che è il soccorso ai poveri, ma non il secondo che è quello che va dai poveri alla Chiesa.
Misericordia. “Il messaggio di Gesù è quello: la misericordia. Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore”: così nell’omelia della sua prima domenica da Papa. “Io credo che questo sia il tempo della misericordia. E la Chiesa è madre: deve trovare una misericordia per tutti”: così ai giornalisti in aereo tornando da Rio de Janeiro. Non una Chiesa giudicante quindi, non la condanna ma la “medicina della misericordia”, come già diceva Papa Giovanni. – Viene l’obiezione che così “si perdono i confini, i criteri, i principi non negoziabili, la distinzione tra ciò che è cattolico e ciò che non lo è”. La risposta di Francesco: non si tratta di perdere tutto questo, ma di ricondurlo alla sua giusta funzione e dimensione, che è di sostegno alla Chiesa in uscita.
Altra obiezione: “Ma così si banalizza tutto – si rende tutto facile – si perde la dimensione drammatica dello scontro con il mondo”. Nient’affatto: questa è una lettura pigra e prevenuta della predicazione di Francesco. Non abbiamo a che fare con un Papa che semplifica e alleggerisce, che rende più facile l’appartenenza alla Chiesa – abbiamo un Papa che pone una forte, fortissima esigenza apostolica, radicale, totale – in vista della quale alleggerisce tutto il resto – perché vuole una comunità senza altri pesi – disposta a farsi carico del solo Vangelo. Libera da ogni impaccio per portarlo a tutti. Libera anche da linguaggi imprigionanti che magari furono fecondi un giorno ma che oggi “più non comunicano”.
L’uscita predicata da Papa Francesco è anche uscita dal modello di Chiesa costituita della tradizione europea – che ha dominato il secondo millennio – per realizzare una nuova figura di Chiesa missionaria. La Chiesa costituita mira ad adunare nelle sue mura, nella sua pedagogia, nella sua anagrafe battesimale e pasquale l’intera umanità, fino a stabilire una coincidenza ideale tra se stessa e la società circostante: la societas christiana, la res pubblica christiana. La Chiesa in uscita invece va oltre l’ovile, le mura, la pedagogia, l’anagrafe e il linguaggio della Chiesa costituita, non più in grado di corrispondere all’umanità circostante, perché essa ha dato grandi vantaggi in altra epoca ma oggi costituisce un impedimento. Un ostacolo all’incontro missionario con l’umanità che è al di là di essa. All’incontro apostolico con ogni umanità, quale fu quello dei primi secoli.
Uscita dalla tradizione europea: per questo è stato scelto per la prima volta un Papa non europeo. “Ma eleggendolo, sapevano quello che facevano?” Sì e no, dico io. Sì per le singole riforme (Ior, Curia, Sinodo), no per la riforma della Chiesa in uscita. Su questo lo conoscevano bene solo i latino-americani ed è loro merito aver convinto i cardinali del resto del mondo ad andare sul nome di Bergoglio.
Quando il cardinale Martini in articulo mortis (muore il 31 agosto 2012, appena sei mesi prima della rinuncia del coetaneo Joseph Ratzinger) ebbe a dire come ultima parola che la Chiesa era indietro di duecent’anni, forse intendeva questo: continua a parlare all’umanità come se essa coincidesse ancora con i credenti, come se la comunità costituita fosse ancora in grado di contenere l’intera umanità. Cosa che non è più – appunto – da almeno due secoli.
Possibilità dell’uscita. L’uscita è una necessità (calo delle vocazioni, abbandono dei giovani), ma una necessità non ancora pienamente avvertita, almeno qui da noi. Questo Pontificato è una provocazione all’avvertenza. Quando ci sarà avvertenza, l’uscita sarà realizzata. O almeno tentata. La sua possibilità è garantita dall’esperienza tutta missionaria delle Chiese non europee, meno costituite, meno organizzate, meno colte; ma più pronte a reagire, più agili, più dinamiche.
Difficoltà dell’uscita. La difficoltà è dominante nelle Chiese d’Europa e massimamente in Italia. E’ una difficoltà da benessere e da ingombro. Da benessere: perché l’uscita comporta l’abbandono delle comodità. Le Chiese costituite sono comode. Da ingombro: gli ingombri sono legati sia alla ricchezza delle strutture, sia alla forma mentis [non si può toccare nulla della figura papale, non si possono rivedere le priorità tra i temi dell’annuncio].
Concludo con alcune espressioni del discorso di Francesco all’assemblea della Cei, il 19 maggio scorso, in cui appare chiara la sua critica al nostro cristianesimo che qui sono venuto esponendo. Francesco allora invitò i nostri vescovi a respingere “le tentazioni della distinzione che a volte accettiamo di fare tra ‘i nostri’ e ‘gli altri’; delle chiusure di chi è convinto di averne abbastanza dei propri problemi, senza doversi curare pure dell’ingiustizia che è causa di quelli altrui; dell’attesa sterile di chi non esce dal proprio recinto e non attraversa la piazza, ma rimane a sedere ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada”.
Ha infine invitato i vescovi a un nuovo modo di presentarsi al popolo: “Come Pastori, siate semplici nello stile di vita, distaccati, poveri e misericordiosi, per camminare spediti e non frapporre nulla tra voi e gli altri […]. Andate incontro a chiunque chieda ragione della speranza che è in voi: accoglietene la cultura, porgetegli con rispetto la memoria della fede e la compagnia della Chiesa, quindi i segni della fraternità, della gratitudine e della solidarietà, che anticipano nei giorni dell’uomo i riflessi della Domenica senza tramonto”.
Il monito è chiaro: se volete “uscire”, vescovi d’Italia, fate queste riforme.