Convegno della Fondazione Lombarda del Credito Cooperativo – BCC
Hotel Ergife – Roma – 17 ottobre 2014 – ore 15.00
Paolo VI è stato un grande Papa e alla vigilia della beatificazione – voluta con forte intenzione da Papa Francesco – conviene ricordare le maggiori tra le sue imprese, ma voglio partire dal mio debito personale verso di lui, per invitare gli ascoltatori che ne hanno l’età alla stessa riflessione. L’ho incontrato una volta, nel 1969, in occasione di un’udienza alla presidenza della Fuci di cui facevo parte, avevo 25 anni: ci parlò accompagnando il ragionamento con il movimento delle mani, come per aiutarsi a cercare le parole. In quella ricerca delle parole mi pare di poter racchiudere in immagine la sua vocazione a farsi parola per il mondo.
Tra i documenti del Pontificato montiniano che più mi toccarono metto l’enciclica sul dialogo “Ecclesiam suam” (1964), quella della scelta di campo accanto ai popoli poveri che è la “Populorum progressio” (1967) e l’esortazione apostolica sulla gioia cristiana “Gaudete in Domino” (1975). Tra gli atti, il pellegrinaggio in Terra Santa (1964), la missione all’Onu (1965), le visite pastorali in tutti continenti (è il primo Papa viaggiatore in epoca contemporanea), la reciproca cancellazione delle scomuniche con il Patriarcato di Costantinopoli. Tra i gesti: la richiesta di perdono ai fratelli separati (1963) e il dono della tiara ai poveri (1965). Infine il “pensiero alla morte”, o testamento, con lo straziante saluto a “questo mondo immenso, misterioso, magnifico”.
Il suo capolavoro fu la conduzione del Vaticano II: eletto per quell’impresa, la compì con sicurezza e nei quindici anni turbinosi in cui fu Papa seppe evitare che si compissero fratture irreparabili nel corpo della cattolicità. Ma nel condurre la sua opera di mediazione prese anche decisioni originali rispetto al punto d’equilibrio dell’insieme della cattolicità. Nel decentramento delle funzioni e dei poteri all’interno della Chiesa, nell’apertura ecumenica, nelle trattative con i paesi comunisti è giunto senz’altro più avanti di quanto veniva richiesto dall’insieme dei vescovi. Nell’etica sessuale e nella disciplina del clero invece le sue decisioni sono state spesso di segno restrittivo rispetto alle attese più diffuse.
Ha avviato una riforma del governo centrale della Chiesa che – a mezzo secolo dalla sua elezione – non è ancora completa ma che nessuno dei successori ha sconfessato e che Papa Bergoglio ora sta riprendendo dov’egli l’aveva lasciata. Sotto la sua guida, e in seguito a una sua chiara indicazione, i padri conciliari stabilirono nel decreto sull’«Ufficio pastorale dei vescovi» (1965) che le decisioni delle conferenze episcopali, su materie previste dal diritto canonico, fossero vincolanti per i singoli vescovi facenti parte di ciascuna di esse. Fu una scelta di portata storica, la prima dal concilio di Trento in poi, che abbia segnato un’inversione di tendenza: dalla centralizzazione al decentramento. Negli anni seguenti, con vari provvedimenti, assegnò agli episcopati molte materie precedentemente riservate alla Santa Sede: l’ordinamento della liturgia, i riti dei sacramenti, i matrimoni misti, i diaconi permanenti, la formazione dei sacerdoti, i tribunali ecclesiastici, la disciplina penitenziale, i catechismi, le associazioni laicali.
In accoglienza a un “voto” conciliare istituì il Sinodo dei vescovi (1965) e ne fissò le regole che sono durate fino ad oggi e che solo oggi Papa Francesco sta aggiornando in vista di una più effettiva collegialità nel governo della Chiesa universale. Nei quindici anni di Pontificato Paolo VI confermò la costituzione di 55 conferenze episcopali, più di quante ne erano sorte nell’arco di un secolo, sotto i suoi predecessori. Ha riformato e internazionalizzato la Curia romana, ha portato oltre il 50% i membri non europei del collegio cardinalizio, del quale ha aumentato il numero, riducendo in esso il peso degli italiani: ha così predisposto le condizioni che hanno condotto in meno di mezzo secolo all’elezione di tre Papi non italiani e del primo Papa non europeo.
L’ecumenismo è stata una delle sue attività centrali. Il 27 aprile 1977, ricevendo l’arcivescovo di Canterbury, fece proprio il motto «Chiesa anglicana unita ma non assorbita», che era stato lanciato mezzo secolo prima dai pionieri dell’unione tra Chiesa cattolica e Chiesa anglicana: a tale intuizione si rifarà nel 2009 Benedetto XVI stabilendo ordinamenti autonomi – coinvolgenti il celibato ecclesiastico e l’ordinamento episcopale – per comunità e gruppi di anglicani desiderosi di aderire alla Chiesa di Roma.
Con grande decisione condusse il dialogo verso le Chiese dell’Ortodossia, che negli ultimi anni iniziò a chiamare «Chiese sorelle». Sarà ponendosi per tale via che Papa Bergoglio appena eletto si presenterà come “vescovo di Roma” suscitando un vasto apprezzamento tra le comunità dell’Ortodossia.
Ma ci sono anche campi nei quali Paolo VI svolse una tenace, impopolarissima azione di contenimento delle tendenze innovatrici: per esempio quello dell’etica sessuale. L’enciclica «Humanae vitae» del 1968, che riaffermava la proibizione dei metodi «artificiali» di controllo delle nascite e la dichiarazione del gennaio 1976 «su alcune questioni di etica sessuale» sono i suoi documenti più importanti in questa materia.
Strettamente legata alla difesa della pedagogia cattolica in campo sessuale fu l’azione svolta da Paolo VI nella riaffermazione del celibato dei preti. Già durante il Concilio riservò a sé la trattazione di questo tema, subito dopo ribadì la dottrina tradizionale con l’enciclica «Sacerdotalis coelibatus» (1967), e a questa scelta si attenne nei diversi casi, sorti in vari paesi, in seguito a proposte innovatrici o ad aperte contestazioni da parte di singoli sacerdoti.
In parte legata alla questione sessuale è quella del sacerdozio femminile, e l’altra più generale del posto della donna nella Chiesa. Qui la materia era nuova e la riflessione fu più lunga, ma la decisione negativa, che cioè la Chiesa Cattolica non poteva ammettere le donne al sacerdozio, fu ugualmente solenne e senza incertezze: la relativa dichiarazione è dell’inizio del 1977.
L’elezione del cardinale Montini a successore di Giovanni XXIII nel giugno del 1963 non era stata una sorpresa e nessun Papa dell’ultimo secolo era risultato altrettanto noto e atteso. Da qui grandi aspettative, che per quattro anni parvero trovare piena realizzazione, ma con il 1967 iniziò una seconda fase, più tribolata nel rapporto con l’opinione pubblica sia interna sia esterna alla Chiesa. Le ragioni della frenata di Paolo VI e della contestazione che l’accompagnò vanno cercate nei grandi mutamenti culturali di quegli anni e nelle ripercussioni che provocarono nel corpo delle Chiese cristiane: la crisi del clero, il «pansessualismo», rischi di contaminazione tra messaggio evangelico e ideologie rivoluzionarie o di contestazione.
Gli ultimi due anni del Pontificato segnano una ripresa dell’immagine di Paolo VI nell’opinione pubblica. La sua figura dolente, bloccata dall’artrosi e sempre più frequentemente impegnata a meditare sulla morte, lascia una traccia nel sentimento collettivo. Le parole bibliche pronunciate per il rapimento e l’uccisione di Moro (9 maggio 1978) funzionano da elemento rivelatore: per la prima volta l’intero paese sembra sentirsi interpretato dal vecchio Pontefice, che muore tre mesi più tardi (6 agosto 1978). Quasi unanime la stampa d’opinione lo definisce “grande”. Sul “Corriere della Sera” il poeta Eugenio Montale gli riconosce il merito d’essersi fatto carico della «responsabilità di tenere unita la Chiesa in un mondo dilaniato».
Francesco ricorda spesso Papa Montini “con affetto e con ammirazione” e lo qualifica abitualmente come “il grande Paolo VI”. Ne ha favorito la beatificazione – che dopodomani celebrerà con la partecipazione dei padri sinodali e del Papa emerito Benedetto XVI – ne richiama come “insuperato” l’insegnamento sull’evangelizzazione, che pone a base del proprio programma pontificale.
Parlando a un pellegrinaggio bresciano nel 50° dell’elezione di Papa Montini afferma il 22 giugno 2013 che l’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” (pubblicata da Paolo VI nel 1975) “è il documento pastorale più grande che è stato scritto fino a oggi”; e ne segnala l’invito ad “annunciare il Vangelo all’uomo di oggi, con misericordia, con pazienza, con coraggio, con gioia”.
La “Evangelii nuntiandi” Francesco la cita sette volte nella “Evangelii gaudium” e l’aveva evocata nel famoso intervento in congregazione generale prima del Conclave che, si dice, gli avrebbe aperto la via all’elezione: “Pensando al prossimo Papa, c’è bisogno di un uomo che aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso la periferia esistenziale dell’umanità, in modo da essere madre feconda della ‘dolce e confortante gioia di evangelizzare’”. Quest’ultima espressione è presa appunto dal paragrafo 75 della “Evangelii nuntiandi” e da essa Francesco ricaverà il titolo della sua esortazione “Evangelii gaudium”.
Forse in epoca moderna nessun Papa è stato di insegnamento ai successori quanto Paolo VI, sia per quello che riguarda le linee di governo della Chiesa, sia per la definizione dell’immagine papale. Papa Luciani appena eletto ne ricordò la “cultura”, Giovanni Paolo II lo chiamò “padre e maestro”, Benedetto ha definito “quasi sovrumano” il suo “merito” nei riguardi del Vaticano II.
Solo Francesco si distacca da Paolo VI sia nel governo (ha ripreso il processo riformatore che Paolo VI aveva posto in mora nel 1967-1968), sia nella definizione dell’immagine papale (dalle vesti all’appartamento). Ma anche il Papa argentino si fa discepolo del Papa bresciano e in ciò che più conta: cioè ponendolo a ispiratore della propria chiamata all’uscita missionaria. E a essa si accinge riprendendo, fin dai primi giorni dopo l’elezione, la croce con il Cristo in essa inchiodato – opera dello scultore Lello Scorzelli (1921-1997) – che era stata di Paolo VI: uno dei simboli del Papa che aveva preso il nome dell’Apostolo delle genti e si era posto in missione per le vie del mondo.
Luigi Accattoli
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