Giuseppe Girotti, sacerdote domenicano e professore di Santa Scrittura, è forse il più colto tra i salvatori di ebrei che in Italia pagano con la vita quel loro impegno durante l’occupazione nazista: muore a Dachau il 1° aprile 1945, essendo divenuto in quel campo un propagandista del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo. Il suo “martirio” è stato riconosciuto dalla Congregazione per le Cause dei Santi nel marzo del 2013.
L’insegnamento biblico all’Istituto Missionario della Consolata di Torino – dopo lo studio delle Scienze Bibliche all’Angelicum di Roma e alla Scuola biblica di Gerusalemme – gli procura una consuetudine con la cultura ebraica che ne fa un naturale alleato degli ebrei perseguitati. Una spia gli si presenta nel convento di San Domenico a Torino come uno dei tanti perseguitati ebrei, chiedendogli se può procurargli un rifugio sicuro. Il padre Giuseppe promette, ma viene arrestato il 29 agosto 1944 e deportato in Germania, assegnato al blocco 25, terzo Reparto, del campo di concentramento di Dachau.
Con i suoi occhiali da intellettuale, zappava come gli altri e riceveva come tutti le sferzate: si ammalò di artrite, nefrite e pleurite. Il 13 marzo un medico cecoslovacco diagnosticò un cancro con metastasi al fegato. Un medico tedesco lo giudicò “una bocca inutile” e gli accelerò la fine con un’iniezione letale. Morì alla vigilia di Pasqua e il suo corpo fu inviato immediatamente al forno crematorio.
Così lo ricorda don Roberto Angeli, che lo conobbe a Dachau: “Il mite, umile e sereno padre Girotti morì la vigilia di Pasqua: era un uomo di grande pietà e di cultura non comune” (Vangelo nei lager, Firenze 1964, p. 121).
È del giugno 1942 l’uscita presso l’editore LICE-Marietti di un suo volume di seicento pagine intitolato: Il libro di Isaia commentato da padre Giuseppe Girotti. Quattro anni prima aveva pubblicato, con lo stesso editore, un commento ai libri Sapienziali della Bibbia. Ambedue le opere erano state molto apprezzate dai competenti del settore.
A Dachau il padre Girotti divenne presto un’autorità, tra quelle migliaia di preti – cattolici e ortodossi – e pastori protestanti che vi erano rinchiusi. Il 21 gennaio del 1944 toccò a lui tenere l’omelia in latino (per farsi capire da tutti) per l’apertura dell’Ottavario per l’unità dei cristiani. Quel testo è stato conservato ed è impressionante l’anticipo sui tempi con cui afferma l’urgenza del dialogo ecumenico:
“A nessuno sfugge che l’unione di tutte le Chiese e Comunità è massimamente necessaria ai nostri giorni. Per tutti noi è certo che la Divina Provvidenza non ha né voluto né messo a capo della nostra infelicissima Europa bisognosa d’essere ricostruita quelle forme organizzate di incredulità che sono responsabili di questo immane crimine qual è questa scellerata guerra. Quelli che hanno preparato e portato a compimento questo nefando caos che è sotto i nostri occhi, sono del tutto incapaci di riedificare poiché in ogni costruzione unico fondamento è la pietra angolare Cristo che essi hanno rigettato. Infatti la nostra sventurata età si può paragonare soltanto ai tempi barbari che succedettero all’impero romano; allora nessun altro fattore si poteva trovare per stabilire l’ordine o per fondarlo di nuovo, se non la Chiesa. La Chiesa di Cristo era in quel tempo, e ancora lo è oggi, l’unico rifugio dell’ordine naturale nella politica e nella vita sociale, familiare, individuale ed economica. La Chiesa fu, è e sempre sarà l’unico rifugio del senso di umanità, di amore e di misericordia (…).
Ora, questa straordinaria missione della Chiesa nel presente gravissimo momento della storia, fratelli carissimi, non può essere perfettamente condotta a termine, se i fedeli di Cristo, uniti nell’anima della Chiesa (ché la grazia del Salvatore abbraccia tutti quelli cresciuti nel suo seno), rimangono invece divisi nel corpo visibile a causa di scismi e divisioni. L’azione della Chiesa suppone l’unione. La Chiesa infatti è intimamente indebolita per quel deplorevole scisma degli Orientali e per quella più deplorevole Riforma fuori dalla Chiesa Romana, compiuta nel secolo XVI. Per queste due gravissime ferite la chiesa di Cristo perdette e ancora oggi perde tanto sangue che né la Chiesa Cattolica né quei nostri fratelli orientali e riformati hanno la benché minima forza di ristabilire l’ordine pubblico, ma necessariamente lasciano il campo a quei deisti e atei che per essere nemici più acerrimi del nome cristiano, hanno sconvolto, comportandosi paganamente, tutta la vita pubblica”.
Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, patrono della Chiesa universale, i preti cattolici presenti nel campo diedero vita a una “Fraterna cleri unio catholica” (Fraterna unione cattolica del clero), avente lo scopo di promuovere il dialogo ecumenico sollecitato tre mesi prima da padre Girotti. Fu invitato a parlare dell’argomento il pastore protestante Martin Niemöller (Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984), che dopo la guerra si affermerà come una delle grandi autorità cristiane del secolo: sostenne – in consonanza con la posizione affermata da Girotti – “la necessità di una riunificazione della Chiesa di Cristo, lacerata, secoli addietro, da motivi politici ed egoistici”. A quella data il padre Girotti era all’estremo delle sue forze: “Non parlava più con nessuno, era ridotto pelle e ossa” (don Angeli).
La notizia della sua morte – che coincide con l’arrivo della Pasqua – crea un clima di particolare intensità religiosa. L’omelia funebre è tenuta dal padre domenicano Leonard Roth, in latino, com’era consuetudine che ci si esprimesse a Dachau, nelle occasioni che valevano per tutti:
“Voi stessi, fratelli carissimi, avete conosciuto abbastanza P. Girotti. Eccelleva in tre virtù, nelle quali ci sia di continuo esempio. Era insigne per singolare semplicità, nonostante la sua dottrina: difficilmente qualcuno avrebbe immaginato in lui l’esimio dottore, perché era molto alieno dalla superbia e dall’esaltazione. Era mite nel giudicare, così da non confondere mai nessuno e da scusare tutti, il più possibile, specialmente chi sbagliava in cose scientifiche. Soprattutto poi era ardente nello studio del Verbo divino, che, per misericordia di Dio, è depositato per noi nella Sacra Scrittura”.
Nel campo il suo numero di matricola era 113355 e nella “scheda personale del detenuto” a lui intestata così era indicata la ragione della pena: “Unterstutzung am Juden”: aiuto agli ebrei (Adriana Mancinelli, Even. Pietruzza della memoria. Ebrei 1938-1945, Torino 1994, p. 215).
Viene riconosciuto come “giusto delle nazioni” nel 1990: il suo nome, nel registro della “Yad Vashem”, è contrassegnato con l’indicazione progressiva “ita 6025 95”. Un decreto della Congregazione per le cause dei Santi pubblicato il 28 marzo 2013 con l’autorizzazione di Papa Francesco ne riconosce il martirio, così rubricandolo: “Sacerdote professo dell’Ordine dei Frati Predicatori; nato ad Alba (Italia) il 19 luglio 1905 e ucciso in odio alla Fede a Dachau (Germania) nel 1945”.
Martirologio del clero italiano 1940-1946, a cura dell’Azione Cattolica Italiana, Roma 1963, p. 117. Paolo Risso, Un domenicano a Dachau. Profilo biografico di Padre Giuseppe Girotti, Bologna 1986: da questo volume ho preso le citazioni delle omelie di Girotti e di Roth e del discorso di Niemöller.
[Aprile 2013]