Tavola rotonda al seminario della Lateranense su
“La fede nasce dall’ascolto della Croce” – 14 febbraio 2013
Fede sofferenza e morte sono temi ostici ai media. L’informazione commerciale teme la gravitas di questi temi. A meno che non li possa trasformare in spettacolo.
Ma quando le circostanze favoriscono l’ascolto – notorietà delle persone coinvolte, novità o straordinarietà dell’evento, semplicità del messaggio – allora il risultato è grande e forse si può formulare questa massima: nessun fatto induce i media alla considerazione della fede cristiana quanto l’accettazione della sofferenza e della morte.
Esemplarità in questo delle figure di Giovanni XXIII, Padre Pio da Pietrelcina, Madre Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II, Carlo Maria Martini. I media hanno dato grande rilievo al loro modo di affrontare la malattia e la morte. E vi hanno visto un’apologia della fede.
Mi fermo innanzitutto sull’attestazione della fede offerta nell’ultima stagione da Giovanni Paolo II e su come l’hanno narrata i media.
La testimonianza di accettazione della sofferenza, che egli dà in questa stagione della vecchiaia e delle malattie, è forse l’aspetto del Pontificato meglio compreso dalle folle. La data simbolo di tale attestazione è il 25 marzo 2005, che fu l’ultimo Venerdì Santo della sua vita. Il Papa partecipa in collegamento video alla «Via Crucis» che si svolge al Colosseo, guidata dal cardinale Camillo Ruini, con testi scritti dal cardinale Joseph Ratzinger. Sui maxischermi piazzati tra il Colosseo e il Palatino appare – a ogni stazione – l’immagine del Papa inginocchiato nella cappella privata, ripreso di spalle o di lato, che segue – curvo e silenzioso – lo svolgimento del rito attraverso la diretta televisiva, guardando verso un grande schermo piatto, collocato sul davanti dell’altare. In rispondenza all’ultima stazione lo si vede che tiene un crocifisso tra le mani tremanti, con il Cristo rivolto verso di sè. Ha inviato un saluto ai partecipanti alla “Via Crucis”, che viene letto dal cardinale Ruini: «Offro le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti». Parole che suonano come un ultimo messaggio. In 26 anni e mezzo di Pontificato ha speso ogni energia, fisica, mentale e di cuore perché “il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti”. Ora il suo corpo non risponde più ai comandi, la malattia lo priva della parola e quasi del gesto, può offrire soltanto il patimento. Questa spoliazione è maturata lentamente lungo l’ultima stagione, è stata narrata efficacemente dai media, quel racconto ha realmente portato il suo messaggio in tutto il mondo e – qui da noi – in ogni casa e a ogni persona. Credo di non aver visto altra comunicazione cristiana più efficace, almeno quanto a diffusione, nella mia esperienza di operatore dei media.
Allargando il campo di osservazione provo a rispondere alla domanda su come la testimonianza dell’accettazione della sofferenza costituisca una forte provocazione alla fede per l’uomo d’oggi. Baso le mie affermazioni – oltre che sulle inchieste riguardanti il vissuto evangelico che ho condotto negli anni e che sono consegnate ai tre volumi intitolati “Cerco fatti di Vangelo” (SEI e poi EDB) – su due piccoli studi recenti che ho condotto per la rivista “Communio” sulle conversioni a Cristo nell’Italia di oggi (1/2011) e per la rivista “Il Regno” (12/2011) sulle conversioni attirate dalla santità diffusiva di Giovanni Paolo II.
Senza entrare nel dettaglio, dirò che vi sono attestazioni di chi (brigatista o bandito: da Cavallina a Cavallero) si dice convertito dalle parole di Gesù sul perdono, o dal perdono ricevuto in carcere dai familiari delle vittime; e di chi narra di essere partito, nel suo cammino di scoperta della fede, dalle parole “beati i poveri” o dal soccorso avuto dai cristiani nel momento del più forte abbandono (morenti di Aids, per esempio).
Nessuno dice di essere stato convertito dalla lettura di un’enciclica di Giovanni Paolo II ma molti fanno riferimento alle parole evangeliche e ai gesti a esse ispirati che sono venuti da lui: ha perdonato l’attentatore, ha chiesto perdono per le colpe dei cristiani, ha abbracciato malati di Aids e prostitute, ha predicato fino ai confini della terra, ha rivolto moniti ai mafiosi, ha dato attestazione di perseveranza nella malattia, ha affrontato la morte a viso aperto. Colpisce in particolare il gran numero di coloro che si dicono “toccati” dalla testimonianza offerta dal Papa sofferente nell’avvicinamento alla morte.
Un elemento – un’immagine – centrale della “gloria crucis” vissuta da Giovanni Paolo II fu richiamato recentemente, giusto un anno addietro, dal cardinale Carlo Maria Martini poco prima di trovarsi anche lui costretto al silenzio. Sul “Corriere della Sera” [giornale per il quale tenne gli ultimi due anni una rubrica mensile di risposta ai lettori] del 26 febbraio 2012 così risponde a chi l’interrogava sul condizionamento del Parkinson che gli stava togliendo la parola: “Mi trovo in una condizione che non è ancora di totale afonia. Grazie all’aiuto di terapisti e con l’ausilio di mezzi tecnologici posso ancora comunicare, seppur con molta fatica. Non riesco quindi a descrivere bene ciò che sto vivendo, se un chiudersi della comunicazione verbale o lo sforzo di parlare ancora malgrado tutto. Non ho paura del silenzio. Mi vado chiedendo tuttavia cosa voglia dirmi il Signore con questa crescente difficoltà che da un lato sto combattendo, dall’altro sto accettando. Invoco il patrocinio di Papa Wojtyla, perché il suo gesto più umano fu quello di battere il pugno sul tavolo quel giorno in cui ebbe l’evidenza di non poter più comunicare a voce con la gente. Lui sa quanto sia faticoso non poter esprimere verbalmente ciò che si ha nel cuore. Sono ancora, quindi, in viaggio e come in ogni viaggio vedo e sperimento cose nuove. Sento che si tratta di una condizione che apre a orizzonti misteriosi“. Ecco un altro caso, accanto a quello di Papa Wojtyla, di efficace comunicazione mediatica dell’esperienza cristiana della sofferenza e della morte collegate alla fede.
Esempi convincenti di diffusione della parola cristiana attraverso i media in collegamento con la sofferenza e la morte sono le notizie di martirio. Oggi gli Acta martirum passano per la Rete: un tempo gli “acta” erano lettere con cui le comunità cristiane colpite dalla persecuzione comunicavano alle Chiese sorelle le proprie “glorie”, cioè le palme conseguite dai propri figli nell’offerta del sangue. Oggi per prima arriva – e arriva a tutti, non solo ai cristiani – la comunicazione mediatica dei fatti di martirio e delle parole dei cristiani che testimoniano la fede con la vita: i sette trappisti di Thiberine, Annalena Tonelli, don Andrea Santoro, il vescovo Luigi Padovese, il ministro pakistano Shahbaz Bhatti… I media danno grande rilievo alla narrazione delle loro vicende. E si potrebbe aggiungere, per l’Italia, i nomi di don Pino Puglisi e di Edoardo Focherini, ultimamente riconosciuti come martiri da due appositi decreti della Congregazione per le Cause dei Santi. I primi martiri italiani della nostra età: il primo martire di mafia e il primo martire dell’aiuto agli ebrei. Ne abbiamo molti altri, di ambedue le schiere. Quando li avremo messi in onore nella Chiesa, anche i media potranno interessarsene.
Qui viene l’ultimo punto della mia riflessione: nel suo approccio ai media, la comunità ecclesiale dovrebbe procedere con maggiore fiducia nella validità dei propri testimoni. Meno discorsi e più storie di vita. A partire dai martiri, passando poi alle grandi testimonianze – di accettazione della sofferenza e della morte – offerte dai “confessori” della fede. Per arrivare alla testimonianza ordinaria o quotidiana: in ogni città, in ogni parrocchia, in ogni gruppo o movimento ecclesiale vi sono i testimoni.
Porli in onore, in evidenza, all’interno della comunità dei credenti potrebbe costituire la via privilegiata per proporre al mondo mediatico le parole, i contenuti e la questione della fede.
Sopra ho accennato alle attestazioni offerte – di fronte alla sofferenza – da grandi figure cristiane del nostro tempo. Ma ovviamente non dobbiamo fermarci ai grandi. Guardando più ampiamente dirò che tra le storie di conversione da me raccolte è frequente il riconoscimento dell’influsso esercitato dai cristiani comuni che affrontano serenamente la morte. E talora quell’influsso valica i confini della comunità e si fa missionario tra i non credenti.
Citerò un esempio che mi sembra parlante: riguarda un’infermiera di Montebelluna, Treviso, che si chiama Alessandra Mattiazzi, che potremmo dire convertita dalla “serenità contagiante dei morenti”. “Ho scelto la fede – ha raccontato al quotidiano Avvenire del 14 aprile 2001, in occasione del battesimo chiesto a 24 anni, essendo stata “stata educata dai genitori in un clima di agnosticismo” – quando ho capito perché tanti malati che assistevo andavano incontro alla morte per nulla angosciati, anzi con una serenità contagiante. Ora il mio sogno è di poter realizzare una famiglia e di poter educare i figli alla gioia che deriva dalla fede”.
Narrare l’esperienza dei cristiani comuni è arduo per i media, che già con qualche fatica – quando si tratta della sofferenza e della morte – si adattano a raccontare quella dei personaggi che “bucano lo schermo”. E’ qui, credo, che dovrebbe farsi più attento, più creativo e se possibile più efficace il magistero della comunità cristiana nei confronti degli operatori e dei fruitori dei media: quanto più le attestazioni della fede davanti al dolore saranno poste in onore all’interno della comunità ecclesiale, tanto più efficace e ampio sarà il contagio che essa potrà esercitare nei confronti del mondo dei media perché si faccia comunicatore ad extra di quelle attestazioni.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it