Un amico mi passa un libretto di un giovane prete romano che non conosco e mi dice: leggilo, sono meno di 50 pagine, parla di croce e risurrezione con freschezza di sentimento, nella lingua d’oggi, ti piacerà. Mi è piaciuto e nei commenti dico come e qualmente.
La crepa e la luce in un libretto di Gabriele Vecchione
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Inno alla risurrezione. Il libretto ha cinque pagine d’introduzione seguite da nove lettere a destinatari di fantasia ma su fatti accaduti: dalla morte di un marito alla difficoltà di perdonare i genitori, alla scoperta del proprio fallimento, allo scontro con “l’ipocrisia trovata nella Chiesa”, a un confratello che teme d’aver sbagliato strada. La lettera che vale di più – pe’ mia – è quella indirizzata a un “Caro Giovanni” che crede di non “riconoscere” nessun segno della risurrezione di Cristo nella sua vita “presente”. E’ l’ultima delle nove lettere ed è come, componendo questo suo poemetto, don Gabriele abbia progressivamente messo a fuoco il cuore del cuore dell’interrogazione cristiana; e qui, nell’ultimo paragrafo, la definizione dell’immagine risulti davvero alta. Messa a fuoco la domanda, il nostro autore con audacia azzarda una risposta in nove punti, nei quali indica nove segni, o effetti della “potenza della risurrezione nella nostra esistenza”: a don Gabriele piace il numero nove, che è quello dei cori degli angeli. Li evoco – quei segni – nei nove commenti che seguono, abbreviando le sue già brevi parole.
Riconciliazione con sé. “Si vive una profonda riconciliazione con sé stessi. Si è contenti di quel che si è, come Paolo: Per grazia di Dio sono quello che sono […]. Si smette di autoanalizzarsi con nostalgia o con ira. Ci si guarda con gli occhi di Gesù: fissatolo lo amò”. Mi pare detto a meraviglia. Accettarsi, lasciarsi guardare dal Risorto che dice: non temete sono io.
Riconciliazione con il tempo. “Grazie alla risurrezione di Cristo non ci si rifugia in un passato aureo o in un futuro utopico, ma si sta bene nel presente”. Quand’ero giovane correvo in avanti, ora che sono vecchio mi volgo indietro. E’ bello sentire un giovane (don Grabriele ne ha 32) che sta bene dov’è arrivato.
Riconciliazione con lo spazio. Il mondo è pieno di persone che corrono sotto nuovi cieli per trovare una pace che fugge: “Grazie alla risurrezione di Cristo, invece, si ama il posto dove si è, perché è un luogo comunque abitato dallo Spirito”.
Si affrontano le paure con una serenità inedita. Anche le paure della morte: “E si rimane vivi. Anzi si diventa più liberi. Si entra nelle tenebre e si trova sempre una luce che non si sperava ci fosse”. Quest’aforisma spiega il titolo del libretto che viene da una canzone di Leonard Cohen (don Gabriele lo spiega a p. 22).
La preghiera diventa continua. “Non in virtù dei propri meriti, ma perché lo Spirito cerca continuamente di entrare in relazione con il nucleo più profondo del nostro io”. Dobbiamo solo aprirgli la porta, direbbe Papa Francesco. Farlo entrare.
Le parole del Vangelo lavorano dentro. “Ci si commuove per alcuni dettagli della Messa […]. Ci si stupisce per dei semplici gesti come la frazione del pane”. Commozione quando puoi stare nella Bibbia e nella Chiesa, mentre il Vangelo lavora dentro.
“Si avverte la compagnia dei santi e dei defunti. Si percepisce che intorno a noi – invisibile ma reale – vive il mondo della grazia: il Signore, Maria, Giuseppe, gli angeli, i santi e i defunti. E anche il nemico”. Per me è il più bello dei nove segni. Quando prego chiamo intorno a me Maria, Giuseppe, l’arcangelo Gabriele, l’evangelista Luca, gli angeli custodi di tutti in famiglia. Vengono quasi sempre.
“Si cercano uomini e donne di Dio. “Si comincia a non sentirsi a proprio agio nelle compagnie mondane dove si cerca gloria vicendevolmente, anche sotto le mentite spoglie della religiosità”. E’ utile l’esercizio di scegliere gli amici: fuori i dissipati, dentro chi tende l’orecchio al soffio sottile dello Spirito.
Compassione per chi detesti. “Non si condannano superficialmente gli altri, ma si intravvedono le cause remote della loro fragilità e le si porta insieme a loro”. Fai il buon samaritano dell’orazione: ti fermi a pregare per chi ti è estraneo o avverso.
Sentire la risurrezione – conclude don Gabriele – vuol dire “lasciarsi sopraffare dalla bellezza di Dio”. Non vi piacerebbe avere un viceparroco che parla così?
Gabriele Vecchione, C’è una crepa in ogni cosa ed è così che entra la luce, Effatà Editrice 2020, pp. 47, euro 7
Ringrazio don Gabriele per la bella lettura che mi ha offerto e ricambio segnalandogli una poesia di Eugenio Montale che svolge la stessa intuizione che illumina il suo titolo. La metto intera nel commento seguente, ma avverto che l’intuizione che segnalo è nella quartina conclusiva e s’addensa nelle parole: “Cerca una maglia rotta nelle rete”. In un’altra poesia della stessa raccolta, “I limoni”, la “maglia rotta” diventa “l’anello che non tiene”. Gabriele, la tua “crepa” ha una sorella e un fratello più grandi in età.
In limine – di Eugenio Montale
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato,- ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
(Ossi di Seppia, 1924-1927)
La luce, che è lo Spirito Santo, penetra dovunque.
https://commentovangelodelgiorno.altervista.org/commento-vangelo-14-ottobre-2020/