Anno: <span>2011</span>

Tanto vale prepararsi / mezzo secolo di vita basta”: versi di Carmen Llera Moravia nella raccolta Vita imperfetta appena pubblicata da Bompiani.

Il papa è appena salito sul treno che lo porterà ad Assisi: un Freccia Argento delle Ferrovie dello Stato sul quale viaggerà con trecento ospiti di tutte le chiese e le religioni mondiale, in vista della quarta Giornata delle religioni per la pace, a 25 anni dalla prima. Ero alle altre tre come inviato del Corsera, felice di esserci. Stavolta non ci vado ma ci sono e vi ci porto con la rete, sempre felicemente.

“ELENA BONO: Chiudere gli occhi e guardare” è un convegno che si fa a Roma venerdì 28 Ottobre (vigilia del 90° compleanno della scrittrice) alle ore 17.00 presso la Società Dante Alighieri in Palazzo Firenze. Il motto del convegno è preso da una poesia di Elena intitolata DALLA BETULLA SI EFFONDE:

Dalla betulla si effonde oscurità nel cielo e sulla terra.
Forse la sera vi è rimasta tutto il giorno nascosta
per sfuggire alla luce
aprendo gli occhi, invano, a vedere se stessa,
spaurita e percossa da un rombo sconosciuto:
la voce del fiume o il vento tra le montagne o il suo cuore.
Ma a poco a poco ciò che si ignora non fa più male;
così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare.
Il tempo che lacerava il suo cuore è ora un immobile
sogno ed ha un attimo solo.
[da Elena Bono, Poesie. Opera omnia, Le Mani 2007, p. 31]

Come non è accettato che qualcuno circoli mascherato nelle nostre città, così nessuno dovrebbe andare mascherato per la Rete, fatti salvi i casi di necessità delle dittature e delle persecuzioni. Non so come il diritto della Rete risolverà la questione. Io parlo di un’esigenza pedagogica, che è quella che qui ci interessa e ci interpella“: è un rutilante aforisma da me proposto insieme ad altri non meno brillanti sabato 22 a un’assemblea del Meic. La mia comunicazione era intitolata Il linguaggio della Rete e può essere letta nella pagina CONFERENZE E DIBATTITI di questo blog elencata sotto la mia foto. Non metto il link in modo che per leggerla dovete andarla a cercare e così vi fate un’idea delle stanze che si affacciano su questo pianerottolo.

«La scossa è stata violentissima ed è durata oltre 30 secondi. In casa crollava tutto: mobili, intonaco, e tutta la roba che avevamo. Durante la scossa ci siamo abbracciati aspettando che si aprisse una voragine sotto di noi o che ci crollasse addosso il sesto piano. Invece siamo riusciti a scappare e a prendere la macchina ma una volta fuori ci sono state altre violenti scosse e quindi non potevamo proseguire. La gente scappava dalle case urlando»: così per telefono Costanza Ugolini ha raccontato alla rivista Popoli il terremoto che ha fatto ieri centinaia di morti e migliaia di feriti in Anatolia. Sono amico degli Ugolini che qui ho intervistato con ammirazione e che ora stringo a me tremando con loro.

Arrivai a Lampedusa e riaprii gli occhi. Li avevo chiusi all’inizio della traversata due giorni prima. Vidi una donna che mi porgeva una coperta. Avevo una profonda ferita alla gamba che mi ero procurata in carcere, mi medicavano, mi disinfettavano, mi davano da bere, mi parlavano dolcemente e anche se non capivo nulla di ciò che mi dicevano, pensai: questo è il paradiso“: parole di una ragazza etiope rifugiata in Italia, ospite del Centro Astalli. E’ una delle dieci storie di rifugiati provenienti dal Corno d’Africa, ciascuna introdotta da un nostro intellettuale (Gad Lerner, Andrea Camilleri, Enzo Bianchi, Erri De Luca, Antonia Arslan, Giovanni Maria Bellu, Giulio Albanese, Amara Lakhous, Melania Mazzucco, Ascanio Celestini), contenute nel volume del Centro Astalli “Terre senza promesse” (Avagliano Editore) presentato il 19 ottobre in Campidoglio. Onoro quelle parole con un bicchiere di Vino Nuovo. [Continua nei primi tre commenti]

Muore Antonio Cassese mentre arriva in libreria – per il Mulino – il libro intervista con Giorgio Acquaviva L’ esperienza del male. Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra. “Che il resoconto di una vita coincida largamente con la storia della difesa dei diritti umani e della legalità internazionale, ecco una sorte degna di invidia” aveva appena scritto Adriano Sofri in una bella recensione di quel volume sulla Repubblica del 28 settembre: Com’è profondo il male. [Segue nel primo commento]

Quando è venuta la sua ora avrebbe potuto tentare diverse vie ma le ha scartate tutte e ha voluto morire sul campo. Avviene spesso, tra gli uomini. Dal tiranno sconfitto al soldato circondato, al bandito che salta dalla finestra e spara ai poliziotti, all’ergastolano che si espone ai tiratori scelti con il coltello alla gola della guardia presa in ostaggio. In questi mesi ho sempre pensato che sarebbe finita così, attenendomi alle parole che ho udito da Tonino Guerra il 25 febbraio, quando la caccia a Gheddafi era appena avviata: “Quello è uno che piuttosto sceglie di morire: quando la vita degli altri vale per qualcuno così poco, finisce che anche la propria vita perde valore e la sfida al destino prevale su tutto” [Gheddafi Tonino Guerra e la sfida al destino].

Sono andato ieri alla chiesa dei Santi Marcellino e Pietro all’incrocio di via Labicana con via Merulana, dove sabato quel ragazzo ha rotto la statua della Madonnina. Ho parlato con il parroco don Pino e con il vescovo ausiliare Giuseppe Marciante anche lui in visita di solidarietà. Condividevano la mia impressione che queste violenze si infittiranno negli anni. Ho ascoltato le mamme del catechismo che erano venute a pendere i bambini. Ho visto automobili che si fermavano e persone che scendevano per raccogliere un frammento della statuina dal marciapiede dov’è ancora la macchia del gesso sfarinato. Davanti all’uscio n. 3 di via Labicana, che immette nella canonica, c’erano cinque mazzi di fiori e un cero. Dalle finestrelle dell’uscio, rotte dagli assalitori, si vede il Crocifisso spezzato dagli stessi, ancora appeso al muro di sinistra dell’androne. Davanti all’uscio n. 1 è la macchia di gesso. Per un poco sono restato dentro la bella chiesa in quieto pianto non sulla Madonnina e sul Crocifisso ma su noi e sui nostri figli.

«Tra il bene e il male avevo scelto il male, c’era meno da faticare. Ho fatto del male a tante persone. Sono stato fortunato. Non ho ucciso nessuno e non ho ucciso me»: parole di Federico Abati, detenuto, malato di Aids, autore di un racconto intitolato “La fortuna di perdere” con il quale ha partecipato al concorso “Racconti dal carcere”, risultando tra i venti selezionati per entrare nell’antologia “Volete sapere chi sono io?” (Mondadori 2011). Auguro vita e saggezza a Federico bevendo con lui un bicchiere di Vino Nuovo.