“L’ho sempre allattata sul barcone tenendola stretta a me, riparandola dal sole di giorno, avvolgendola con il mio corpo la notte per evitare il freddo, gli schizzi delle onde“: parla così una mamma nigeriana salvata in mare il 5 agosto con una bimba di 90 giorni. Una parola di vita ci può venire da una piccola donna che approda per miracolo a Lampedusa. Si chiama Faith Omorelugie e la sua bambina Chideria, di tre mesi, è la creatura più piccola che sia sopravvissuta a sei giorni di deriva su una barca che rischiava a ogni momento di affondare sotto il peso di 370 persone, delle quali ne sono morte una trentina. Un fatto che ci ridice che cosa possa il coraggio di una madre ripiegata su se stessa a proteggere una figlia dalle onde. Le sue parole sono state raccolte dal collega Felice Cavallaro che le ha riferite sul “Corriere della Sera” del 6 agosto e io a esse brindo con un bicchiere di Vino Nuovo.
Anno: <span>2011</span>
In automobile da Roma a Viterbo vedo – all’altezza del lago di Bracciano – un gregge fermo all’ombra di un leccio. Tornando dopo due ore rivedo le pecore che si sono spostate con l’ombra. Arrivato a Roma trovo davanti a Palazzi Chigi una torma di giornalisti e cameramen che ruotano con l’ombra della Colonna Antonina. Agosto raduna le pecore al leccio e allinea i media lungo la meridiana del potere.
“Più di 1500 persone arrivano ogni giorno in Kenya dalla Somalia: bambini e donne in maggioranza e tutti malnutriti, stanchi, impauriti da quello che hanno visto e udito. Hanno speso i soldi che avevano per raggiungere in auto il confine e i meno fortunati hanno dovuto camminare anche per 40 giorni. Settimane ossessive – mi raccontano all’Ufficio registrazione di UNHCR – passate a scappare dagli attacchi di animali selvaggi e da Al Shabab, i talebani della Somalia”. E’ l’attacco di una lettera-racconto di Victoria Martinengo dal campo profughi di Dadaab – che mi è arrivata ieri in risposta a una mia domanda sulla sua esperienza di operatrice dell’agenzia AVSI [vedi post del 3 agosto]. Qui il resto della sua narrazione, di cui la ringrazio.
Dedico due ricordi lieti al collega Vittorio Citterich che se ne è andato l’altro ieri a 81 anni. Il primo è per la sua passione di fumatore: era in gara permanente con Franco Pisano (allora vaticanista dell’Ansa, mentre Vittorio lo era per il Tg1) durante i “voli papali”: a chi accendeva per primo dopo il decollo, appena si spegneva il “proibito fumare”. Il secondo ricordo è per la “sorella ebrea”: i genitori – Lina e Mario Citterich nel 1943 adottano e salvano dalla deportazione una neonata ebrea, Rena Shaky, e dopo la guerra corrono a Parigi a riportarla ai genitori “sopravvissuti” alla persecuzione. Essendo io cercatore di queste storie, Vittorio mi raccontava che i genitori l’avevano presa volentieri, quella bimbina, “anche per darmi una sorellina”. La vicenda è rievocata nel capitolo 18 Giusti delle nazioni della pagina CERCO FATTI DI VANGELO elencata sotto la mia foto: 1943-1945: tra i “giusti” e gli ebrei nasce il primo dialogo. Vittorio aveva il dono di non meravigliarsi mai troppo delle sorprese della vita e lo comunicava con spontaneità.
“Occorre un armistizio fra tutti i partiti che apra la strada a un governo di unità nazionale: sarebbe figlio di una volontà politica, anzi sarebbe il riscatto della politica“: così ieri Casini, l’unico che abbia fatto una proposta praticabile. Nel primo commento riporto alcune affermazioni del leader dell’Udc in un’intervista pubblicata oggi dal Corriere della Sera. Chi potrebbe guidare quel governo? Fino all’altro ieri pensavo a Tremonti (vedi post del 23 febbraio 2011: Ho sognato un governo Tremonti). Oggi dico: o Tremonti, o Pisanu. Verso i mercati sarebbe meglio Tremonti, ma è più realistico pensare a Giuseppe Pisanu.
Gentile Accattoli, sono dell’ufficio stampa di Fondazione AVSI, una ong impegnata con AGIRE per l’emergenza in Africa Orientale e ho letto il suo articolo su LIBERAL riguardante quella tragedia. Siamo presenti dal 2009 nel campo profughi di Dadaab dove in queste settimane arrivano famiglie che hanno camminato per 27 giorni e a volte raccontano di non essere riuscite a difendere i figli più piccoli quando sono stati attaccati da leoni, iene, coccodrilli e facoceri. Le nostre cooperanti ci raccontano una tragedia grande ma ci dicono anche che una delle prime cose che la popolazione del campo profughi chiede, insieme ad acqua e cibo, è l’avere scuole dove mandare i bambini. Pane, acqua ed educazione: dove si chiede questo c’è speranza. Le lascio i riferimenti di una nostra cooperante, nel caso volesse sentirla. Maria Acqua Simi – Ringrazio Maria Acqua, che ha un bel nome. Ho scritto un’e-mail alla cooperante per avere un racconto in presa diretta. Qui si può leggere il mio pedante articolo pubblicato da LIBERAL. Nei primi commenti indico due vie per mandare un contributo.
«Tu crederai forse di aver vinto. Uccidendo i miei amici e i miei compagni, tu forse credi di aver distrutto il Partito laburista e coloro che in tutto il mondo credono in una società multiculturale, ma sappi che hai fallito (…). Io non sono arrabbiato. Non ho paura di te. Tu non ci puoi colpire, noi siamo più grandi di te. Noi non risponderemo al male con il male, come vorresti tu. Noi combattiamo il male con il bene. E vinceremo»: è Ivar Benjamin Oesteboe, 16 anni, che scive questo in una lettera aperta al terrorista di Utoya Anders Behring Breivik. Ivar era a Utoya il 22 luglio e si è salvato nascondendosi tra gli arbusti, ma nella strage ha perso cinque amici. La lettera al sanguinante l’ha pubblicata in Facebook: vedila nel Corsera online. Io voglio bene a Ivar come alla Julie e al Tom del posto precedente e come a tutti i ragazzi e le ragazze del mondo che pensano come loro. Figli – figli cari – figli miei.
“Un uomo in uniforme ha cominciato a sparare (17,45). Cerco di rassicurare quelli che sono nascosti con me (17,50). Tutto ok (19,30)“: sono tre sms di Tom, uno dei ragazzi che erano sull’isola norvegese di Utoya nelle ore della strage del 22 luglio. Gli dedico un bicchiere di Vino Nuovo. Il fatto è che mi ritrovo in Tom e vorrei somigliargli: vedo in quella situazione una parabola della vita sulla terra. C’è chi spara e io mi adopero a tenere buono chi è nascosto con me. Ma ecco qui una gustosa conversazione – in quattro chiamate dal cellulare – di una sedicenne di nome Julie, che era sull’isola, con la mamma Marianne. Di Julie, che in tutto mi appare figlia, nel “bicchiere” avevo riportato una frase e volevo darvi il resto. La deliziosa Julie e la mamma che le manda il nonno e che vorrebbe prenotarle l’aereo ci dicono che la vita è colorata, altro che il grembiule massonico di Anders il guerriero. Detto anche il sanguinante, il sanguinoso, il sanguinaccio.
Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 2011: Penati? Che pena. – Verzè? Che cavolo.
“Stavolta parlo dell’accanimento dei medici: non in chiave medica o giuridica, che non sono miei campi, ma narrando storie come si addice a un giornalista e la storia di partenza è quella di un amico pediatra di Reggio Calabria che è morto di tumore a 70 anni nel gennaio del 2008, lasciando un caro ricordo in un vasto ambiente del volontariato e della Chiesa reggina. Il ricordo di Lucio ravviva in me quello di altre tre storie che alla sua si legano e che riguardano il patriarca Athenagoras, il cardinale Benelli, la terziaria domenicana Leletta. Storie che invitano a guardare con cautela ai ‘protocolli’ medici ma prima ancora a ciò che da essi noi ci attendiamo“: è l’attacco lento di un mio articolo di un qualche impegno appena pubblicato dalla rivista “Il Regno”. Lo trovi nella pagina COLLABORAZIONE A RIVISTE, elencata sotto la mia foto, con il titolo L’accanimento medico e i santi con i quali lo discuto. Chi voglia sapere di più sul primo di quei “santi”, cioè Lucio Raffa, vada alla pagina CONFERENZE E DIBATTITI e chiami quella del 27 maggio Ricordo di Lucio Raffa medico amico (1937-2008).
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